In una Milano quasi deserta, visito oggi la mostra di Carla Accardi al Museo del ‘900. Di tutto questo anno dedicato dal Comune alle donne nell’arte rimane ben poco. Persino la pandemia ha remato contro quello che per il lodevole intento del Comune, dove essere l’anno giusto per celebrare la donna artista.
Mentre a Londra si fa la fila per ammirare alla National Gallery il genio di Artemisia, in un Museo del ‘900 pressochè vuoto si espone Carla Accardi.
Figura di spicco degli anno ’50, Carla ha seguito, accompagnato e a tratti guidato il percorso dei più noti colleghi maschi, da Turcato a Perilli, da Dorazio a Consagra. Le prime mirabili opere, che prendono le mosse dal più classico dei Balla futuristi, sono affiancate alle opere degli amici di sempre.


Fra tutti, colui che dal 49 sarà suo marito, Antonio Sanfilippo.

Vicini al Partito Comunista, gli amici firmano il manifesto che li registrerà nella storia dell’arte come Gruppo Forma 1. Ne è esposta un’interessante copia.

Dal 1953 Carla sviluppa uno stile personalissimo, fatto della luce e delle onde della sua Trapani, fatto delle sedimentazioni visive delle saline della sua terra natìa. Nel ’54 a seguito di una personale a Roma viene inserita dal critico Tapié nel gruppo internazionale dell’Informel; la “matericità” di alcune opere trovo la avvicini molto al Gruppo Cobra.

L’intervento dell’Urss in Ungheria nel ’56 la allontana dal Partito Comunista e svincola la sua pittura dalla politica. La riflessione sul colore, sulla contrapposizione dei toni domina il periodo successivo.

Una riflessione continua fra micro e macroscala, corpi cosmici e microorganismi.
Pierre Restany nel 59 definisce la sua arte “Una scrittura simbolica, arcaica, magica e rituale” e le opere esposte ben rappresentano questo periodo.

E poi arriva il colore, con una dirompente virata dalla Biennale del 64. Evidente il cambiamento di questa donna la cui ricerca non si è mai fermata. Come Fontana e come tutti gli artisti del loro tempo, Carla non può non essere influenzata dalla scienza, dal neon, della fosforescenza. Guarda a Matisse e lo celebra con una serie di acquerelli che celebrano il colore.

La riflessione sulla modernità e sull’innovazione la porta direttamente alle plastiche che usa con disinvoltura insieme a vernice fluorescente, con l’intento di indagare lo straordinario materiale che cambierà il mondo.

Il segno archetipico viene quindi dagli anni 60 in poi applicato al materiale piu innovativo del mondo, un matrimonio straordinario per un’artista molto prolifica che ha dominato buona parte della storia della seconda metà del ‘900.
Il percorso si conclude con alcune opere che mettono in evidenza l’ulteriore riflessione sulla pittura come pratica a sé stante, restituendo dignità anche al telaio ed a parti di esso come base estetica e strutturale dell’opera e dunque meritevoli di attenzione.
Una mostra a mio parere interessante e completa.
