Henri Matisse e Tom Wesselmann

Oggetto di interesse di giapponesi americani, italiani, il museo Matisse di Nizza presenta in queste settimane un’interessante mostra sul rapporto tra l’artista americano Tom Wesselmann e il grande maestro francese.

Prima di partire in quarta su quello che Matisse ha rappresentato per l’arte moderna e contemporanea è bene sapere che l’avvio della sua carriera è stata indiscutibilmente ottocentesco sia cronologicamente che stilisticamente. Chi direbbe mai che il maestro della Danza è stato allievo di Gustave Moreau alla Scuola di Belle Arti negli anni novanta del XIX secolo e che le sue prime opere rilevanti avevano questo sapore?

Tra il 1890 ed il 1897 la firma cambia radicalmente così come il tratto,

poi cambiano la prospettiva,

la tecnica, con sperimentazioni alla Signac,

e infine il colore. Questa evoluzione porta Matisse a liberarsi dalle costrizioni di un’arte che non sentiva più sua e che non corrispondeva più al suo tempo. Erano gli anni dei Fauves e delle prime sperimentazioni di Picasso.

Il Museo Matisse disegna molto bene i passaggi avvenuti nella decina di anni cruciali tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, tra bronzi, matite, chine di produzione del grande artista e oggetti che facevano parte del suo studio e che esercitavano su di lui forte fascinazione -dai maestri antichi alle culture islamiche-

e ci porta al Matisse che tutti conosciamo, quello della sintesi delle forme nello spazio.

A partire dal 1940 Matisse utilizza spesso la tecnica dei papiers gouachés découpés e ne fa un uso ancora più intenso quando, ormai molto anziano e con mobilità ridotta, riesce ancora in questo modo a lavorare con forme e colori.

Una sala è dedicata alla Piscine che Matisse preparò per se stesso in carta quando ormai anziano e malato non poteva più nuotare. “J’aime le regarder parce que j’ai toujours adoré la mer et maintenant que je ne peux plus aller nager, je me suis moi-même entouré de l’ocean”. Così scriveva al direttore del Moma Alfred Barr nel 1952.

Il lavoro originale su carta che ricopriva le pareti del suo studio è conservato al Moma ma il nipote dell’artista ha fatto ricreare l’opera da Hans Spinner in ceramica e l’ha donata al museo di Nizza nel 2011. In mostra le bellissime foto d’epoca che ritraggono l’appartamento nel 1952 sulle cui pareti si trovava l’installazione.

All’ingresso del museo l’imponente Sunset Nude with Matisse Odalisque del 2003 introduce Tom Wesselmann e la mostra temporanea in corso.

Tom Wesselmann prende l’Odalisca di Matisse e la trasforma in icona pop trasformando nel corso degli anni il suo rapporto con Matisse da citazione, ad ammirazione e poi ad eredità quanto a concezione di forme e colori. Ma chi era Tom Wesselmann? Era un eccellente artista seguito da quella grande galleria che fu la Sidney Janis Gallery di New York. Nel 1962 partecipò alla mostra consacrativa International Exhibition of the New Realists con Jim Dine, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Robert Indiana e Andy Warhol nonchè Arman, Christo, Rotella, Tinguely e Schifano che portavano le loro istanze dall’Europa. Sebbene Wesselmann non volesse essere celebrato come artista Pop, quella fu la mostra che possiamo dire diede l’avvio al ‘movimento’.

Bellissima l’opera Blue Dance realizzata in alluminio tra il 1996 ed il 2002. Accostati ad essa, tre bozzetti in cartoncino, materiale plastico e scotch che per sovrapposizione mostrano chiaramente l’iter progettuale e creativo dell’opera.

Numerosi i riferimenti di Wesselmann a Matisse nel corso della sua carriera

e persino una citazione diretta con la copia di un autoritratto del grande maestro inserito in Sunset Nude with Matisse Self-portrait del 2004, una delle opere più significative in mostra.

Le opere di Wesselmann ci permettono di guardare meglio all’Odalisca di Matisse che sì attraversa i decenni per la sua modernità ma nasce in un contesto storico ben preciso, dove i modelli vestiti all’orientale si ispiravano a Delacroix ma incontravano la moda del primo dopo guerra affascinata da quell’Oriente lontano ma in fondo non così misterioso.

Un’ultima sezione del percorso museale è dedicata alla cappella di Santa Maria del Rosario di Vence alla quale Matisse si dedicò tra il 1949 ed il 1951.

Molto bella la mostra temporanea e assolutamente da vedere la collezione permanente di questo museo, vera perla di Nizza.

Masaccio ospite del Museo Diocesano di Milano

Ospite d’eccezione della mostra al Diocesano fino al 7 maggio è la Crocefissione di Masaccio del 1426 in prestito dal museo di Capodimonte di Napoli. Cuspide del magnifico polittico della Chiesa del Carmine di Pisa -polittico smembrato nel corso dei secoli e suddiviso tra il Getty di Malibu, la National Gallery di Londra, Berlino, Pisa e appunto Napoli- questo dipinto è il culmine di una bellissima mostra dedicata ai fondi oro.

Accompagnata da un ciclo di conferenze, la mostra celebra la donazione della collezione di fondi oro del giurista Alberto Crespi (1923 -2022) al museo Diocesano e offre l’occasione per un ‘ripasso’ della figura di Masaccio dopo tutta l’arte moderna assoluta protagonista di questi tempi recenti.

Al pari di Van Eyke per la pittura nordica, Masaccio fu caposcuola della pittura italiana. Il giovane Masaccio, vedendo le sculture di Donatello, si chiedeva come mai in pittura non si riuscissero a rendere le forme ed i volumi allo stesso modo… E questo interrogativo lo portò a riflettere per primo sulla luce.

Incredibile è l’evoluzione della sua arte nell’arco della sua breve vita, soli 27 anni.

Il Trittico di San Giovenale, decisamente tardogotico (è datato 1421), è il suo punto di partenza: il trono e la soglia se vogliamo non sono nemmeno perfetti prospetticamente ma le dita in bocca del Bambino lasciano intravedere qualcosa di estremamente moderno e spontaneo.

Quale fu il contesto in cui si inserì l’evoluzione di Masaccio? In quel periodo il pittore più in voga a Firenze era Lorenzo Monaco con le sue figure senza peso. Già cominciava a farsi conoscere Masolino e Gentile da Fabriano veniva chiamato dagli Strozzi per la celeberrima Adorazione dei Magi del 1423, gemma oggi degli Uffizi.

Nel 1424 troviamo Masaccio e Masolino -spesso contrapposto a Masaccio ma in realtà pittore raffinatissimo- lavorare insieme sulla tavola nota come Sant’Anna Metterza, conservata oggi nella Galleria degli Uffizi di Firenze. L’opera è uno dei dipinti chiave non solo della produzione dell’artista ma anche del passaggio dal tardogotico al Rinascimento.

Ma è nel 1424-1425 alla Cappella Brancacci che troviamo la massima espressione di Masaccio.

Celeberrimi gli Adamo ed Eva di Masaccio (e quelli ‘più classici’ di Masolino) ma tra le parti da lui affrescate, ogni figura è davvero riconoscibile. Masaccio all’epoca aveva solo 23 anni anni. Le ombre che si allungano sui malati e gli storpi consentono a Masaccio di ribadire l’importanza della luce e delle ombre per la resa dei volumi e delle prospettive.

Il precedente era Giotto e sappiamo che sia della Cappella Bardi che della Cappella Peruzzi in Santa Croce Masaccio fece delle copie quindi le conosceva bene e senz’altro ne aveva preso spunto. I richiami sono molti soprattutto in termini di sintesi volumetrica ma si vede il salto in avanti di Masaccio rispetto all’illustre predecessore. Bernard Berenson disse di lui «Giotto rinato, che ripiglia il lavoro al punto dove la morte lo fermò». Per sessant’anni poi la Cappella Brancacci rimase incompiuta finchè nel 1485 Filippino Lippi terminò gli affreschi.

Il Polittico dei Carmelitani di Pisa da cui proviene la Crocefissione oggi esposta a Milano è stato realizzato in 4 mesi nel 1426. Forse Masaccio intuiva che sarebbe morto giovane? Questo non lo sappiamo ma vediamo come il trono su cui siede la Madonna sia chiaramente esemplificativo dell’evoluzione di Masaccio se confrontato con quello del Trittico di San Giovenale.

Nel 1426 Masaccio dipinse la Crocefissione in Santa Maria Novella che dimostra l’ulteriore e decisiva evoluzione dei suoi studi sui volumi e sulle prospettive.

Purtroppo nel 1428 Masaccio non ancora ventottenne morì a Roma tra atroci dolori non si sa ancora dovuti a quale malattia.

In un mondo che corre troppo e guarda solo all’arte di oggi, questa mostra offre la possibilità di fare un tuffo nel nostro passato e vedere da dove veniamo.

DALI’, MAGRITTE, MAN RAY E IL SURREALISMO

La mostra dei capolavori dal Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam attualmente in corso al Mudec di Milano è un’ottima opportunità per approfondire la conoscenza dei surrealisti e per indagare i rapporti che ebbero con i dadaisti, anch’essi ben rappresentati in questa occasione. Un ulteriore aspetto di interesse della mostra è che le opere in prestito non sono sempre tutte visibili al museo di Rotterdam.

Esposte nelle prime sale, due delle opere più interessanti e rappresentative: Couple aux têtes pleines de nuages di Dalì del 1936

e Le modèle rouge III del 1937 di René Magritte, enigmatico capolavoro in cui non c’è traccia nè di rouge nè di III ma è forte la recriminazioni verso una civiltà, la nostra, in cui l’uomo ha dovuto indossare della calzature e ha perciò perso il rapporto con la terra e con la natura genuina.

Il surrealismo nasce nel 1924 con il manifesto scritto da André Breton che propone di realizzare una rivoluzione della mente. I primi surrealisti si raggruppano a Parigi in seguito alla fine della prima guerra mondiale e questa non é solo una concomitanza casuale: a causa della guerra gli artisti hanno perso ogni fede nel progresso e, rifiutando valori e convinzioni tradizionali per la loro società, propongono di creare una nuova realtà.

Il surrealismo è senza dubbio legato a doppio filo al dadaismo che l’aveva preceduto di pochi anni. Scrittori ed artisti dadaisti furono i primi che, indignati per orrori della guerra, diedero vita a un primo moto di irrazionale e assurdo dovuto al rifiuto di quell’ ordine e di quella logica che avevano condotto l’uomo all’aberrazione della guerra.

Esemplificativi di questo profondo turbamento legato alla storia sono i due dipinti del più celebre tra i surrealisti, Salvador Dalì: terribile Le visage de la guerre del 1940 in cui teschi si intravedono in teschi che presentano altri piccoli teschi

e España del 1938 dove un brandello di carne insanguinata che pare anche un mantello da torero esce da un cassetto di un mobiletto-plinto al quale si appoggia una personificazione della Spagna quasi invisibile: i suoi seni sono collegati da lance impugnate da cavalieri mentre il suo viso (omaggio alla Scapiliata di Leonardo) emerge se si osservano i cavalieri che si scontrano. Oltre al dramma del conflitto mondiale infatti, gli artisti spagnoli recavano anche le ferite nell’anima per la guerra civile che insanguinava la loro terra. Chiari in diverse opere di Dalì i riferimenti al Nord Africa da cui erano partite le truppe di Francisco Franco.

Il Surrealismo non è definito da un’estetica chiara, ogni artista lo interpreta come crede ma i presupposti e gli intenti sono comuni a tutti i componenti del gruppo e mentre il Dadaismo intende distruggere il passato ed è come se osservasse il presente senza proposte per il futuro, le proposte dei surrealisti vanno nella direzione della psicanalisi e del marxismo: la rivoluzione del pensiero deve proseguire anche in rivoluzione sociale. Anche l’uso di droghe fa parte del mondo surrealista e Dalì è uno dei primi che dagli inizi degli anni ’30 non si nega al delirio interpretativo.

Interessante e pertinente l’approfondimento dedicato al legame tra Surrealismo e culture native extra-occidentali indagato nella sessione della mostra curata dal prof. Alessandro Nigro. Già nel 1923-24 a Parigi si tiene una mostra di arte indigena delle colonie francesi, nel 1926-27 sulla rivista La révolution surréaliste diventa una rubrica fissa. Anche le gallerie surrealiste si distinguono per inusuali esposizione di oggetti etnografici. Gli artisti integrano i manufatti nel loro programma artistico. É sincero il loro impegno politico nella difesa delle popolazioni native ma talvolta contraddittorio rispetto alla loro attitudine collezionistica.

La mostra ha anche il pregio di presentare artisti meno conosciuti al grande pubblico come Paul Delvaux, Piet Ouborg, Victor Brauner, Unica  Zürn o Kristians Tonny che lavorarono negli stessi anni dei grandi maestri ma che per motivi di critica e mercato sono rimasti più indietro e vengono riscoperti solo ora.

Infine, una stanza dedicata interamente a Magritte rende omaggio al grande artista in chiusura alla mostra e lascia senza parole i visitatori: non vedere ciò che si dovrebbe vedere e vedere ciò che non dovrebbe essere visibile, abbandonare il dejà vu per entrare in un jamais vu… credo non basterebbe una settimana in queste sale per capire davvero le opere e gli artisti surrealisti…

Alle Gallerie d’Italia di Milano la mostra Dai Medici ai Rothschild. Mecenati, collezionisti, filantropi.

Il ruolo del collezionista è già stato di recente indagato dalle Gallerie di Italia con la mostra sui marmi Torlonia e questa esposizione prosegue nella stessa direzione ampliando lo sguardo sulle diverse figure e/o famiglie che hanno lasciato il segno nella storia del collezionismo.

La mostra copre un arco cronologico che va dal Rinascimento al Novecento con opere di altissimo livello perché la committenza eccellente non poteva che selezionare opere eccellenti, non certo di bottega. 

Tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento emerge la necessità di sviluppare e di garantire il mercato creditizio perciò nascono le banche e inizia l’ascesa di alcuni personaggi la cui grande fortuna è direttamente connessa allo sviluppo di questa attività. Gli Scrovegni di Padova sono tra i primi a cristallizzare la propria notorietà nella cappella per la quale chiamano Giotto. Gli Arnolfini tra Firenze e le Fiandre lasciano a imperitura memoria il celeberrimo ritratto di coppia commissionato a Van Eyck, oggi conservato alla National di Londra. Come loro, anche i Portinari e -primi fra tutti – i Medici raccolsero attorno a sé i migliori artisti del loro tempo (Verrocchio, Botticelli, Michelangelo, Bronzino…). Dal mecenatismo dei Medici prende avvio la mostra, dalla preziosa Madonna della Scala di Michelangelo Buonarroti (1490 circa conservata a casa Buonarroti a Firenze) e dal Ritratto di Lorenzo il Magnifico del Bronzino del 1565 in prestito dagli Uffizi.

Nel ‘500 a Roma vi fu l’importantissima figura di Agostino Chigi che commissionò a Raffaello la famosa Loggia di Psiche a villa Farnesina, mentre nel ‘600 fu la famiglia Giustiniani a Roma a raccogliere le opere più preziose. Tra i capolavori presenti in mostra, il San Gerolamo del Caravaggio attualmente custodito a Montserrat.

Tra i grandi collezionisti presentati, anche Heirich Milyus, banchiere e imprenditore tedesco vissuto a Milano, amico di Manzoni e mecenate di Hayez, l’americano John Pierpont Morgan, affarista statunitense, la cui collezione d’arte fu donata al Metropolitan di New York, von Fries, Wagener e ovviamente i Rothschild. 

Sono presenti capolavori di Verrocchio, di Van Dyck, dei caravaggeschi Gherardo delle Notti e Valentin de Boulogne, del Veronese e di Angelika Kauffmann.

Degna di menzione anche la parete di disegni della collezione di Everhard Jabach, da Baccio Bandinelli a Vasari, da Agostino Carracci a Francesco Primaticcio.

Particolare attenzione è poi posta sul banchiere “umanista” Raffaele Mattioli, ammiratore di Van Wittel, di Fattori, di Giacomo Manzù e di Giorgio Morandi, protagonista della rinascita economia e culturale nell’Italia del dopoguerra e soprattutto riferimento per le prime acquisizioni della Banca Commerciale che ora con il “Progetto Cultura” vuole proseguire come Intesa Sanpaolo. 

La mostra è organizzata in collaborazione con la Alte Nationalgalerie – Staatliche Museen di Berlino e con il Museo del Bargello di Firenze, è a cura di Fernando Mazzocca e Sebastian Schütze.

120 le opere in prestito dai più prestigiosi musei internazionali come la National Gallery di Londra, il Musée du Louvre di Parigi, la Albertina di Vienna e The Morgan Library & Museum di New York. 

Fondazione Prada e la mostra Recycling Beauty

Fondazione Prada è una cittadella di 19’000 metri quadri dedicati all’arte, un insieme di edifici recuperati da una distilleria degli anni ’10 del 1900 ai quali sono state aggiunte tre nuove costruzioni: il Podium, il Cinema e la Torre.

All’ultimo piano di quest’ultimo curioso edificio di nove piani, disegnato da Ron Koolhaas, dopo aver percorso un piccolo e claustrofobico labirinto al buio, troviamo gli ormai famosissimi funghi di Carsten Höller. Chi non ha fatto un selfie con fungo?? Io l’ho fatto. E in più occasioni, confesso.

L’onirica atmosfera che pervade questo divertente spazio è davvero unica. Carsten Höller è un artista straordinario, visionario, fuori di testa ma al contempo molto scientifico nelle ricerche che porta avanti. Come nelle installazioni del 2016 all’Hangar Bicocca, Höller vuole portare il visitatore a ragionare fuori dagli schemi, estraniarlo dalle proprie consuetudini, sovvertire la realtà e le certezze ataviche. L’alterazione percettiva come medicina per l’uomo moderno. È assolutamente geniale.

Sullo stesso piano dei funghi troviamo l’installazione Blue Line di John Baldessari che propone una riflessione sull’immobilismo della fotografia del Cristo disteso di Holbein in rapporto al movimento del visitatore filmato da una telecamera e riproposto nella sala attigua. Il lavoro è del 1988 quindi propone un approccio pionieristico alla videoarte.

Scendendo troviamo un piano quasi interamente dedicato a Damien Hirst. Le sue opere sono sempre difficili da digerire, anche quelle qui in Fondazione: le riflessioni sulla caducità dell’uomo e sulla morte trovano qui esemplificazione nelle installazioni con mosche e nel monocromo a parete composto da piccoli cadaveri… Non c’è alcuna volontà di ‘indorare la pillola’ allo spettatore: la realtà dura e pura della morte viene senza mezzi termini rappresentata nelle opere di Hirst.

Decisamente più ludici, rilassati (e parecchio scenografici!) gli altri piani dedicati a Pino Pascali e a Walter de Maria, mentre bello e significativo mi è parso l’accostamento di Jeff Koons a Carla Accardi che punta un faro su una grande protagonista femminile dell’arte italiana in parallelo al conosciutissimo americano Koons.

Mentre i coloratissimi Tulips dalla serie Celebrations di Koons esposti in centro alla sala ribadiscono il continuo fascino dell’artista per le suggestioni dell’infanzia, ricreando in scala ingigantita oggetti generici (in questo caso tulipani), i sicofoil della Accardi esposti a parete risalgono alla fase più matura dell’artista che sperimenta ed esplora colori e materiali moderni. Tanto ci sarebbe da dire anche sulla bellissima ceramica di Fontana esposta al ristorante dell Torre ma è la mostra Recycling Beauty ad attirare l’ attenzione in queste settimane poichè a breve chiuderà i battenti, mentre le opere nella torre fanno parte della collezione permanente e sono sempre visibili

La mostra è dedicata al tema del riuso di antichità greche e romane nel periodo dal Medioevo al Barocco. A scuola ci insegnano che il motivo per cui tante opere o architetture non sono rimaste integre fino ai giorni nostri -al di là dalle aggressioni del tempo e dell’incuria dell’uomo- è che sono state prelevate dai siti originari e riutilizzate in altri contesti, dove servivano. In primis colonne e pietre ma anche rilievi, sculture, capitelli. Questa è la premessa di questa interessante mostra ma lo scopo finale è offrire una lettura attuale del fenomeno del riutilizzo che significa non solo prelievo e ricollocazione, ma anche nuova valorizzazione del pezzo, un “risveglio” che in qualche modo dobbiamo interiorizzare e riproporre ai giorni nostri.

La modalità espositiva è in forte contrapposizione con l’antico: è moderna, originale, sperimentale e questo amplifica la modernità del messaggio proposto da Salvatore Settis, grande archeologo, e da Fondazione Prada. Alcune collocazioni sembrano postazioni da lavoro, con addirittura sedie da ufficio davanti, quasi a stimolare lo studio dei pezzi esposti.

Appena entrati troviamo una preziosa coperta di evangelario che risale all’epoca di Carlo Magno (IX secolo d.C. circa), rilegata a fine 1400 e che include un prezioso cammeo dell’epoca di Costantino (IV secolo d.C.): l’inclusione dell’antico cammeo è esempio della virtuosa attitudine al riciclo celebrata dalla mostra.

Di epoca tardo imperiale è anche il dittico in avorio commissionato nel 487 d.c. per celebrare l’inizio del consolato di Manlio Boezio. Il protagonista con scettro d’aquila imperiale decreta la partenza degli aurighi per le gare. Riutilizzato 200 anni dopo, il dittico reca sul retro due miniature epoca longobarda, reciclate da un registro liturgico.

Il pavone in prestito dal Vaticano, risale invece al II secolo. Simbolo di immortalità, questo pezzo, insieme ad altri ormai perduti, decoravano nel II secolo il Mausoleo Adriano, poi diventato Castel Sant’Angelo. In seguito, questo ed un altro pavone furono utilizzati per decorare una fontana davanti alla basilica di San Pietro.

Salta all’occhio in mostra per presenza scenica e raffinatezza il grande cratere scolpito con scene bacchiche dallo scultore ateniese Salpion nel 50 a.C. È inserito in mostra come exemplum di riciclo perché per anni è stato usato come fonte battesimale nella cattedrale di Gaeta e poi come colonna d’ancoraggio per le imbarcazioni in un porto. Entrato nel Real Museo Borbonico di Napoli nel 1805, fa parte oggi delle collezioni del Museo Archeologico di Napoli.

Il Camillus esposto accanto al cratere risale invece al I-II secolo d.C. ed era stato donato da Papa Sisto IV al popolo di Roma. Con altri, questo pezzo andò a formare il primo nucleo della collezione dei Musei Capitolini.

Altro interessante esempio di riciclo sono la Zingarella ed il Moro realizzati per il cardinale Scipione Borghese dallo scultore francese Nicola Cordier nel 1600. Nel caso del Moro, Cordier recupera una testa antica, una parte di torso e parti antiche e le ricompone per restituire una figura di respiro barocco. Lo stesso procedimento adotta per la Zingarella. E sei lei è rimasta nella collezione Borghese, oggi il Moro fa bella mostra di sé al Louvre. Le due figure sono state qui riunite dopo tantissimi anni.

Emblematica del tema del riuso è la trasformazione del tondo di età romana che rappresentava la deposizione di Meleagro: nel 1500, tramite l’aggiunta di aureole, la scena è diventata una deposizione di Cristo. Il tondo venne utilizzato come decorazione sopra una finestra in un palazzo a Velletri ed è oggi in prestito dal Museo Civico Archeologico della città.

Da segnalare infine, tra le altre numerose opere esposte, il Colosso di Costantino ricostruito per la prima volta in grandezza 1:1. Il Colosso era una delle opere più importanti opere della scultura romana tardo-antica e per aggiungere qualità alla spettacolarità della ricostruzione, sono esposti accanto ad esso due monumentali frammenti marmorei, la mano e il piede destro, in prestito dal Palazzo dei Conservatori a Roma (IV sec. d.C.). Il colosso mostra come la figura, originariamente di Giove, sia stata già nell’antichità trasformata in un Costantino tramite un semplice taglio di barba, sempre nell’ambito del riciclo.

Ciò che la mostra trasmette è che riciclare nel caso dell’antichità ha significato conservare. Decontestualizzare, ricollocare e riutilizzare sono state le azioni che hanno consentito all’uomo di trasmettere reperti e l’invito è che siano elementi chiave anche della nostra contemporaneità.

I prestiti da musei prestigiosi come il Louvre, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, i Musei Capitolini, i Musei Vaticani e gli Uffizi conclamano al Fondazione Prada come uno dei più autorevoli e interessanti poli culturali di Milano.

La prima retrospettiva in Italia dedicata a Max Ernst

Nel 1916 nasceva il dadaismo al Cabaret Voltaire di Zurigo, nel 1919 era possibile sfogliare in un bar di Monaco la rivista metafisica di De Chirico Valori Plastici e nel 1924 prendeva vita il surrealismo a Parigi. Se mettiamo questi elementi in uno shaker, aggiungiamo filosofia, alchimia e psicanalisi, otteniamo Max Ernst.

400 le opere in mostra a Milano per questa grande retrospettiva.

Il dipinto che accoglie i visitatori è Edipo Re, del 1922, in prestito da un’importante collezione svizzera. L’arto trafitto, la noce, gli animali legati, la mongolfiera che vola libera nel cielo, hanno tutti significati ben precisi e piuttosto contorti che rimandano in larga parte alle riflessioni freudiane sulla sessualità.

Max Ernst predilige tecniche che prevedono una sorta di riuscita casuale dell’opera -come il frottage e la collotipia- e mettono in discussione l’intervento reale dell’artista.
Il ruolo di chi crea viene quindi rivisto ed indagato sulla base della spontaneità, del surrealismo, della casualità.

Civiltà del futuro, Palazzo di Cnosso, piramide Maya? Straordinaria e modernissima La città eterna del 1936 in prestito di nuovo da una collezione privata svizzera.

Nel 1937, lo stesso anno del Guernica di Picasso, Ernst dipinge il mostruoso Angelo del focolare, evidente presagio di sventura.

Con un’opera del 1939 porta all’estremo le indagini sulla casualità, appendendo un barattolo di pittura -bucato e colante colore- sopra ad un foglio. Dripping ante litteram alla Pollock?

Dopo complicate vicende amorose e a causa della guerra dilagante in Europa, dal ’41 al ’53 Max Ernst è in America, prima con Peggy Guggenheim e poi con l’amatissima Dorothea Tanning. L’America influenza non poco Ernst che assiste (e contribuisce?) alla nascita ed allo sviluppo dell’espressionismo astratto, mentre gli artisti americani si accostano alle tecniche ed alle sperimentazioni alle quali lui ormai era avvezzo. L’espressionismo astratto americano prende moltissimo dal surrealismo, mentre un’ opera grande come Tessuto di menzogne del ’59 dimostra come le dimensioni delle opere americane colpiscano e diventino parte della poetica dell’autore.

Nel 1954 viene premiato alla Biennale di Venezia ma, sebbene non sia un artista vanitoso, viene espulso nel ’55 dal surrealismo dall’irritabile (e forse invidioso) Breton.

Spunti da artisti a lui contemporanei sono ravvisabili nelle opere degli anni ’50. Tra tutti, Tancredi e Dubuffet.

Se la fisica è per gli scienziati, la metafisica per i filosofi, la patafisica è per quelli come Ernst che pensano alla logica dell’assurdo e alla scienza dell’impossibile. L’ultima sezione della mostra è popolata da criptografie, microcosmo e macrocosmo in una sintesi ideale degli studi di questo incredibile letterato, filosofo, genio.

La Fondazione Rovati di Milano

Cultura, tecnologia, innovazione.
Ecco che cosa è la Fondazione Rovati.

Sposa un concetto completamente moderno. È un museo per sottrazione. Espone pochi oggetti su cui è inevitabile concentrarsi.

Intrigati dal mistero di questa struttura inaugurata il 7 settembre ma celebrata e introdotta da diversi mesi tramite interessanti conferenze, i milanesi accorrono a visitare il nuovo museo. Si incontrano ragazzi e ottantenni in questo luogo che ha voluto e saputo creare suspense.
Eccola l’Etruria antica raccontata da immagini semplificate, disegnate, immediate come devono essere oggi, di veloce comprensione.

Mario Cucinella, architetto di fama internazionale, ha creato questo posto pazzesco all’interno di uno dei palazzi più belli di Milano, con affaccio sui Giardini Pubblici di Porta Venezia.

Nell’ipogeo, quattro nuclei centrali raccontano la vita degli etruschi, dagli spazi domestici alle attività produttive, dai commerci alle pratiche devozionali. I reperti, risalenti ai secoli tra il nono ed il secondo a.C., accolgono gli incantati visitatori. Le opere sono tutte in perfetto stato di conservazione.

Un curioso candelabro bronzeo del V secolo a.C. si affianca a tazze, secchi, coppe e oggetti di uso comune.

Un vaso di Picasso tenta di nascondersi tra i vasi etruschi, un grande piatto di Fontana racconta la sua Battaglia in mezzo alle battaglie antiche, una Testa di Medusa di Arturo Martini del 1930 spicca tra le coppe mentre il Naso che cammina di William Kentridge si confonde tra gli ex voto anatomici del III e II secolo a.C.

Una piccola area è dedicata anche all’oreficeria con straordinari manufatti intervallati da oggetti di grandi artisti della modernità come Giacometti e De Dominicis. Anche nel corso del XIX secolo l’oreficeria etrusca è stata apprezzata e copiata (pensiamo alla celebre famiglia di orefici Castellani) ma permettetemi di dire che nulla può competere con le paperelle in filigrana del VII secolo a.C.

Al piano nobile un lampadario di Giacometti accoglie i visitatori.


Nella seconda sala, la Danza Rituale di Andy Warhol si racconta accanto al bestiario raffigurato sulla selezione di reperti esposti.

Nelle vetrine i disegni di Augusto Guido Gatti che alla fine del 1800 rappresentò con straordinaria abilità i reperti etruschi.

Le Polaroid di Paolo Gioli completano questa innovativa sala, valorizzata anche dal recupero della magnifica boiserie.

La stanza seguente ospita un’installazione realizzata da Giulio Paolini espressamente per la fondazione. L’istallazione avvolge una strepitosa colonna figurativa della prima metà del II secolo.

E chi più di Giorgio De Chirico si è fatto catturare dalle antichità? Nella sala successiva un bellissimo Cheval del 1929, accostato ad un’armatura del 1590, ad una specchiera di Marianna Kennedy e ad un cavallo caduto di Ai Weiwei.

La stanza riempita dall’installazione di Sabrina Mezzaquì non necessita di commento. Troppo bella.

Persino Luigi Ontani, nella sala successiva, riesce qui a piacermi.
Un gesso di Fontana aiuta a rendere la sala gradevole così come l’azzeccatissimo colore delle pareti.

Ciliegina sulla torta di un museo perfetto un prato con un cartello che recita “Per preservare il giardino vi chiediamo di non calpestare l’erba…a meno che non siate bambini”.

Joaquín Sorolla, pittore di luce

Dopo aver ospitato Monet, Palazzo Reale a Milano ha aperto le porte a Joaquín Sorolla y Bastida, artista poco conosciuto in Italia ma estremamente noto e amato in Spagna. La sua fama è stata oscurata negli anni dai cugini francesi ma merita di essere conosciuto e apprezzato. La mostra -di gran lunga più bella di quella dedicata a Monet- chiuderà purtroppo i battenti a breve ma lascerà un segno memorabile sugli amanti dall’impressionismo e della Belle Époque che -concentrati unicamente sui francesi- non avevano forse mai sentito parlare di lui.

In una Spagna tormentata dalle tensioni sociali, negli anni 90 dell’800 Sorolla si concentra inizialmente sui temi sociali. La Tratta delle bianche ne è una prova: l’azzardata prospettiva ed il realismo dei colori suggeriscono che probabilmente quest’opera sia stata dipinta ‘in loco’, vale a dire su un treno durante il trasferimento di alcune giovani prostitute accompagnate dell’anziana protettrice. Già in questa fase l’artista lascia lo studio per gli esterni, scelta che resterà una costante della sua carriera.

A parte questa prima opera che racconta gli esordi dell’artista, tutta la mostra è l’esemplificazione della passione di Sorolla per la luce e per la pittura en plein air.

Cucendo la vela del 1896 è la prima opera di grandi dimensioni esposta. La cucitura della tela è davvero una scena poco eroica ma protagonista dell’opera non è l’azione svolta ma la luce nella quale i personaggi sono immersi. La tavolozza è gestita con assoluta sicurezza. Presentata a Parigi, l’opera fu da subito un successo. Esposta alla Biennale del 1905, venne acquistata con lungimiranza dal Comune di Venezia e destinata a Ca Pesaro.

L’assenza di contorno e la libertà del tocco sulla tela ci ricordano la lezione dell’impressionismo, rispetto alla quale temporalmente Sorolla è leggermente in ritardo ma che tradurrà in maniera molto personale e protrarrà per anni.

I ritratti di famiglia gli consentono di sperimentare le tecniche che utilizzerà nei ritratti ufficiali, poiché in vita è stato apprezzato come ritrattista da aristocratici e reali.

Nel 1906 un viaggio a Biarritz porta Sorolla a rinfrescare la sua tavolozza. In Istantanea, Biarritz, la moglie Clotilde tiene in mano una piccola Kodak.

Un inno alla joie de vivre. Il mare cangiante, le pennellate rapide, la luce sui corpi dei bimbi… opere favolose nascono in questo periodo.

Clotilde, Maria ed Elena ed una cugina riposano nella tela 1911 intitolata giustamente La siesta. Il punto di vista rialzato e la posa delle protagoniste, raccontano anche l’ audacia di questo straordinario artista che, trovata la propria strada, ha comunque continuato personali ricerche sul colore sulla prospettiva.

La fortuna di Sorolla si deve anche all’amore che per lui nutrirono i collezionisti americani. Grazie al mecenate Archer M.Huntington, fondatore della Hispanic Society di New York, Sorolla ebbe l’occasione di farsi conoscere negli Stati Uniti e di potersi confrontare con un’arte più ‘giovane’, libera dalle tradizioni europee e già matura per digerire e premiare artisti straordinari come Mary Cassatt. L’opera più bella del periodo americano è il ritratto di Mr.Tiffany a Long Island.

Dopo la parentesi dedicata alle opere commissionate dalla Hispanic Society americana, la mostra torna a concentrarsi sulla luce e ci porta alle opere valenciane del 1915 e 1916. Nella delicatissima opera La veste rosa si ravvisano gli elementi appresi a Roma negli anni 80 del 1800, studiando la classicità e la raffigurazione del panneggio.

Magnifico il dipinto Dopo il bagno del 1915. La scena, di grande spontaneità, è ancora una volta invasa dalla luce dell’estate.

La lezione sulla luce di questo eccezionale artista lascia il segno a Milano e non solo in chi ama impressionismo e Belle Époque ma anche in tutti coloro che apprezzano nell’arte la celebrazione della vita.

Leonor Fini. Italian Fury

Ultima chance di visitare domani a Milano la mostra dedicata da Tommaso Calabro a Leonor Fini. Soprannominata dall’amato Max Ernst Italian Fury, Leonor fu un perfetto mix di “scandalosa eleganza, capriccio e passione” come lo stesso Ernst scrisse. Nata a Buenos Aires nel 1907 ma cresciuta nella Trieste di Saba, di Svevo ma soprattutto di Leo Castelli, Leonor frequentò l’Accademia di Brera con Achille Funi, poi visse a Parigi dove morì nel 1996.

Affascinante ed intrigante, Leonor era anche avvezza ai travestimenti poiché la madre da piccola la travestiva da maschietto per proteggerla dai tentativi di rapimento del padre… Un personaggio complesso, di grande fascino.

La sorprendente mostra prende l’avvio dall’opera di Stanislao Lepri che nel dipinto la Chambre de Leonor del 1967 raffigura la camera della pittrice. A questo dipinto è ispirato l’avvio della mostra milanese.

In un allestimento assolutamente geniale voluto dall’artista Francesco Vezzoli curatore della mostra, illusione e realtà si incrociano e nella camera dipinta sono appese opere reali.

Dalla camera di Leonor prende l’avvio la mostra che si snoda nelle varie eleganti stanze della galleria Tommaso Calabro. Le indubbie capacità pittoriche di Leonor sono qui confermate da una serie di ritratti della fine degli anni 40, inizi anni 50.

Presenti anche opere degli amici come Max Ernst stesso e Giorgio de Chirico.

In Présence sans issue del 1966 Leonor Fini pare si diverta a lavorare con un colorismo quasi klimtiano su una base di simbolismo, con qualche elemento che impreziosisce ulteriormente la tela. Lo stesso dicasi per Le retour des absents del 1965 in cui ci sono addirittura particolari che emergono dalla tela quasi fossero in filigrana.

L’opera L’amitié del 1958 è il manifesto del simbolismo che permea tutta la produzione di Leonor Fini e sorprende per intensità e modernità, così come i paraventi esposti a seguire.

Francesco Vezzoli, curatore della mostra, non poteva non concludere il percorso con il ricamo-omaggio alla pittrice Enjoy the New fragrance (Leonor Fini for Greed) del 2009,

ma, per quanto Vezzoli sia molto amato in patria e all’estero, l’opera più bella rimane un disegno di Leonor, Girl with Shells, del 1947 utilizzata per la copertina del numero di giugno di Harper’s Bazaar. Magnifico.

48 ore di arte e cultura in Veneto

Dopo la giornata all’insegna del Rinascimento di Giulio Romano e di Mantegna a Mantova, il nostro peregrinare a caccia di arte digeribile per i bambini ci porta in Veneto, dove decidiamo di visitare -o almeno dare una prima occhiata- a Verona, Padova e Vicenza. In viaggio con i bambini si sa, non si può avere la pretesa di vedere tutto ma si può certamente cominciare a dare un’idea dei territori e delle città.

Tra lo stupore di alcuni beni mai visti prima ed il piacere di ritrovarne ben conservati altri già visti in un passato colpevolmente troppo lontano, mi sento di affermare che il Veneto sia una regione bellissima e ricchissima la cui conoscenza non può limitarsi a Venezia.

VERONA

Alla prima volta in Veneto, non si può prescindere dal visitare Verona. E da qui infatti partiamo con l’Arena del I secolo, famosa in tutto il mondo al pari del Colosseo. Certamente più piccola del cugino romano, l’Arena ha fornito la base intorno alla quale la città si è sviluppata nel corso dei secoli e naturalmente risulta subito di forte impatto per i bimbi.

L’altra attrazione macroscopicamente imperdibile di Verona è il balcone di Giulietta. Il maestro Franco Zeffirelli, con le scene più salienti del film del 1968, mi facilita il compito di raccontare la tragedia dei due giovani veronesi. E qui le foto sono proprio d’obbligo.

STRA, VILLA PISANI

All’interno della Villa Pisani di Stra si trova l’ultima opera di Giambattista Tiepolo realizzata in Italia prima di partire per l’estero.

Gli arredi e le decorazioni della magnifica villa rivelano i vari passaggi di proprietà nei secoli. Tra tutti gli ospiti illustri va senza dubbio citato l’imperatore Napoleone che qui si fermò nelle notti del 28 novembre e del 13 dicembre 1807. La villa fu donata dall’imperatore al Vicerè d’Italia Eugenio Beauharnais. Le pitture ottocentesche di Giovanni Carlo Bevilacqua impreziosiscono molti dei soffitti, mentre gli arredi valorizzano gli spazi.

Giuseppe Maggiolini -il massimo esponente dell’ebanisteria neoclassica italiana- aveva organizzato un’importante bottega per rispondere alle commissioni di Ferdinando d’Austria, allora Arciduca del lombardo-veneto. I motivi figurativi dei mobili di Maggiolini qui presenti, pur di origine classica, sono proposti attraverso la mediazione del gusto rinascimentale.

Un salto indietro nel tempo ci porta alle decorazioni di Jacopo Guaranà (1720 1800) con scene ispirate al mito di Bacco e Arianna.

Nonostante tutto, sono la vasca da bagno e la toilette d’epoca a destare maggiore sorpresa…

…almeno fino ad arrivare al salone. La vera meraviglia arriva infatti con il salone da ballo affrescato da Giambattista Tiepolo nel 1761. Il committente Luigi Pisani viene ritratto accanto ai suoi figli insieme alla Divina Sapienza, alle Virtù, alle Arti, alla Pace, all’Abbondanza, alla Discordia, all’ Eresia, ai Continenti, all’Italia e a Venezia. Satiri con le zampe a penzoloni arricchiscono gli angoli mentre la famiglia Pisani, che aveva partecipato alla terza crociata, viene guardata con benevolenza dalla Vergine al centro del soffitto accompagnata dall’angelo della fama, mentre le allegorie dei Continenti sono visibili dall’altro lato del soffitto.

PADOVA

L’ ambiziosa prima giornata si conclude con la Cappella degli Scrovegni, la tappa in realtà più importante di tutte. Realizzata nel 1305 circa da Giotto, la cappella fu commissionata da Enrico degli Scrovegni, figlio del ricco banchiere al quale Enrico desiderava garantire un posto in paradiso con questa commissione.

Approfittiamo delle aperture serali per godere della cappella in notturna: il nuovo sistema di illuminazione della iGuzzini consente di godere appieno dei colori in tutte le fasi del giorno poiché la luce artificiale si regola in base alla luminosità che penetra dalle finestre, garantendo tra l’altro il 60% del risparmio energetico rispetto a prima. Prima dell’ingresso nella cappella è necessario il passaggio in una sala apposita per consentire una corretta conservazione degli affreschi, così come avviene al Cenacolo di Milano. Ormai si sa che le visite hanno un impatto problematico sugli affreschi per via dell’inquinamento e del respiro dei visitatori, ma con questi accorgimenti ed una permanenza ridotta nella cappella, si cerca di ovviare il più possibile al degrado delle pitture.

La cappella è magnifica: sulla sinistra dell’ingresso si apre la parte absidale decorata poco dopo l’intervento di Giotto e qui si conservano le sculture di Andrea Pisano. Il resto della Cappella è diviso in quattro registri con un programma iconografico molto preciso: nel registro superiore sono rappresentate le storie di Gioacchino e Anna, subito sotto storie di Giuseppe e Maria, sotto e ben visibili le storie della vita di Cristo e infine, nel registro più basso ad altezza uomo, Vizi contrapposti a Virtù, gli uni sulla parete di destra, le altre sulla parete di sinistra. Tra le scene più belle il primo bacio della storia dell’arte tra Gioacchino e Anna davanti alla porta di Gerusalemme, la Natività di Cristo, la strage degli Innocenti, il tradimento di Giuda, Giuda stesso con il diavolo alle spalle e la crocifissione. Straordinarie le novità introdotte da Giotto: il linearismo, il colore, l’espressività dei volti. Tutto contribuisce a rendere questo ciclo di affreschi una pietra miliare nella storia dell’arte a livello mondiale.

In alto, lo strazio nei volti delle madri nella scena della Strage degli Innocenti. I corpicini colpiscono per la posa scomposta, assolutamente innovativa.
L’espressività del volto di Cristo.
Innovativa la posa di spalle del personaggio che sembra tirare un sipario.
Incredibile nella Natività la naturalezza della posa di Maria

VICENZA

Poco fuori Vicenza abbiamo modo di visitare la magnifica Villa Valmarana ai nani. La leggenda racconta che una principessa nana fu rinchiusa dai genitori in questa villa e circondata solo da nani in modo da non rendersi conto della sua diversità. Ma un triste giorno la realtà irruppe nella villa, la principessa si rese conto di tutto e decise di uccidersi gettandosi dalla torre. La morte della fanciulla portò alla pietrificazione dei nani nelle 17 statue che ora si trovano sul muro di cinta. Qui le collocò la nuora di Giustino Valmarana alla fine del 1700. Da allora la villa si chiama Valmarana ai nani.

Da subito, appena si entra, ci si trova confrontati agli affreschi di Giambattista Tiepolo nel salone centrale: il Sacrificio di Ifigenia in cui il sacerdote Calcante, con un pugnale in mano, si appresta a uccidere la giovane alla presenza di tutti mentre Agamennone si copre il volto per non vedere il sacrificio della figlia.

Sul soffitto è raffigurata la dea Diana che ha commissionato l’orrore, mentre sulla parete di fronte si vede, nascosto tra le colonne, Giustino Valmarana, proprietario della villa, commosso davanti alla scena. Dalla parte opposta, un bellissimo cane, come spesso si ritrova nei dipinti di Tiepolo. Dietro a Giustino Valmarana si intravedono le Vele delle navi greche che si preparano a salpare. Dopo il sacrificio di Ifigenia infatti, la flotta di Agamennone poteva ritenersi nuovamente autorizzata da Diana a prendere il mare.

Nella seconda sala, affrescata questa volta da Giandomenico Tiepolo -il figlio di Giambattista-, Agamennone fa rapire la schiava troiana di Achille, Briseide. Sulla seconda parete Achille viene tenuto per i capelli da Atena, dea della guerra, mentre sulla terza Achille viene consolato dalla madre Teti che emerge con una Nereide dai flutti del mare. La quarta parete invece è dedicata ad una scena paesana ma Cupido ci ricorda che tutte le scene rappresentate parlano di amore.

La stanza dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto è dedicata all’amore tra Angelica e Medoro. In una prima raffigurazione Angelica è legata ad uno scoglio e sta per essere divorata da un’orca marina, quando Ruggero, cavalcando un Ippogrifo, arriva a liberarla. Sulla seconda parete, Angelica incontra Medoro, lo cura e si innamora di lui. Sulla terza parete i due sono ospitati da due contadini ai quali Medoro regala un anello d’oro e sulla quarta parete si vede Angelica incidere il nome di Medoro su un tronco.

La stanza seguente è dedicata alla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso ed alla storia della maga Armida. Nell’intento di proteggere l’esercito saraceno, Armida con un canto riesce ad addormentare il cavaliere crociato Rinaldo e, con l’aiuto di uno specchio e di un incantesimo, lo fa innamorare di sé, allontanandolo dalla battaglia. Ma Goffredo di Buglione, comandante dell’armata Cristiana, manda due soldati alla ricerca di Rinaldo per riportarlo sul campo di battaglia e questi -grazie a uno scudo incantato nel quale si specchia- capisce di essere stato vittima di un sortilegio. Il valoroso combattente decide quindi di ripartire per la guerra, nonostante Armida cerchi di trattenerlo a sè.

Nella sala dedicata all’ Eneide, Enea sbarca dopo una tempesta sulla costa africana. Gli viene in aiuto la madre Venere, Dea dell’Amore che gli suggerisce di incontrare la regina Didone. Enea si innamora perdutamente di Didone -complice Cupido- ma in sogno gli compare Mercurio che lo esorta a lasciare Cartagine e a riprendere il viaggio verso il Lazio dove poi sposerà Lavinia.

Tutta diversa è invece la Foresteria, affrescata da Giandomenico Tiepolo , il figlio di Giambattista. Le scene di vita campestre sostituiscono le scene dei miti e degli eroi, ormai non ritenute più di attualità. La prima sala è dedicata alle cineserie per come nel 1700 l’ Europa vedeva la Cina.

Il pennello torna al padre nella sala dedicata all’Olimpo l’unica da lui affrescata nella foresteria.

La sala che segue è dedicata al carnevale e i due magnifici scaloni raffigurati sono una vera prova dell’abilità dell’artista in ambito prospettico. Un moro scende le scale con alcune tazze per la cioccolata: è Alì, un servitore rappresentato molto spesso nelle scene di Giambattista Tiepolo.

Nell’ultima, insieme ai putti che giocano, troviamo il pappagallo dalle piume policrome, simbolo e firma dei Tiepolo.

Entrando a VICENZA, lascia senza parole il Teatro Olimpico, ultima opera di Andrea Palladio. Primo teatro moderno al chiuso, fu realizzato nel 1584 per volontà dell’Accademia Olimpica. Straordinario per l’illusione della profondità, il teatro è davvero un unicum mondiale per ricchezza delle decorazioni e magnificenza delle linee prospettiche.

Ma l’impronta Palladiana è ovunque Vicenza, dalla basilica alla cattedrale. La costruzione della cattedrale prende l’avvio dal 1482 ma è solo nel 1557 che finalmente viene completata. Il responsabile del progetto è anche in questo caso Andrea Palladio.

La basilica invece vede l’apporto di Palladio dal 1500 per la parte che si va a sovrapporre al loggiato preesistente. Il nome di basilica inganna i turisti che si aspettano di entrare in una chiesa ma la meraviglia è tanta anche se di chiesa non si tratta poiché la volta interna è una sorta di chiglia di nave lignea rovesciata.

Bellissima anche la chiesa della Santa Corona che contiene opere di Montagna, di Domenico Veneziano, del Veronese, del Pittoni, del Bellini -attualmente in restauro- oltre a due lunette pressoché nascoste di Michelino da Besozzo e la cripta del Palladio.

Visitiamo anche le Gallerie d’Italia all’interno di Palazzo Leoni Montanari. La parte che colpisce di più è senza dubbio la Galleria della Verità affrescata da Giuseppe Alberti nel 1600 e decorata dagli stucchi del 1688 di Andrea Pelli e Giacomo Aliprandi. Muse, putti, virtù e vizi rendono questa sala davvero molto opulenta.

Simpaticissimi i putti che nella sala degli stemmi sostengono lo stemma dei Leoni Montanari con i simboli del leone e dell’aquila. In questa stessa sala una selezione di dipinti di Pietro Longhi ci riporta alla quotidianità veneziana del Settecento.

Bellissima la loggia esterna con stucchi di nuovo di Giacomo Aliprandi

Magnifiche le vedute veneziane da Canaletto a Francesco Guardi, da Michele Marieschi a Luca Carlevaris esposte a seguire. La sala è dominata da una scultura in marmo di Carrara raffigurante la Caduta degli Angeli ribelli del 1725 di Francesco Bertos.

Prima di tornare a Milano ci concediamo un’ultima visita a Palazzo Chiericati e di nuovo troviamo Giambattista Tiepolo che ci dà il benvenuto con la tela La verità svelata dal tempo, del 1744. Insieme a lui, due Pittoni del 1720 circa danno l’avvio al percorso museale.

Il ciclo dei lunettoni dei Podestà, qui riunito per la prima volta dopo secoli, rappresenta simbolicamente il massimo splendore della città avvenuto tra Cinquecento e Seicento, grazie al grande rinnovamento architettonico palladiano. Sviluppatasi attorno a un nucleo di epoca romana, Vicenza conoscete grandi sconvolgimenti durante il medioevo ma la fase di stabilità e di benessere che segue gli scontri di potere tra le fazioni vicentine, favorisce il clima culturale in cui vive Andrea Palladio che trasforma la sua amata città. Interessante il ciclo di Francesco Maffei e le raffigurazioni dei Podestà che erano collocate nel palazzo dei podestà che sorgeva di fianco alla Basilica Palladiana ed è stato distrutto dai bombardamenti del ’45.

Il primo piano di Palazzo Chiericati è dedicato alla scuola vicentina, dopo un passaggio tra Domenico Veneziano e Hans Memling. Massimo esponente della scuola vicentina fu Domenico Montagna molto ben rappresentato qui. Bellissima la Madonna con il Bambino sotto un pergolato tra i santi Giovanni Battista e Onofrio e magnifici i Globi di Vincenzo Coronelli.

Anche la pittura del 1600 è molto ben rappresentata con diverse tele di Luca Giordano ma anche di artisti locali come Antonio Balestra e Pietro Bartolomeo Cittadella.

Francesco Maffei e Pietro della Vecchia sono i due vicentini celebrati nelle sale che seguono. Pietro della Vecchia fu tra gli artisti più originali della scena veneta del 1600 per il suo eclettismo, il gusto per il grottesco, per la caricatura e per l’allegria. Adottò una tavolozza cupa e austera ma poi la abbandonò per dedicarsi allo studio dei grandi maestri veneziani del secolo precedente, in particolare Tiziano e Veronese. Lavorò anche accanto alle opere di Tintoretto, ebbe modo di studiarne stile e colori e la sua pittura nonché la tavolozza ne subirono l’influenza.

Pietro della vecchia Il chiromante, 1650

Con questo approfondimento sulla pittura antica si chiude il nostro weekend veneto e torniamo a Milano. Negli occhi tanta bellezza e nel cuore la speranza di riuscire a a tornare sulle rive del Brenta presto per vedere le altre meraviglie di questa zona.

Tiziano a Palazzo Reale

Devo dire che la mostra in corso a Milano non mi ha emozionato particolarmente. Per carità, le molte prestigiose provenienze rendono l’esposizione ricca ma non ho trovato quel ‘quid’ che cerco in una mostra per definirla SUPER.
Basti dire che le opere che mi sono piaciute maggiormente sono state lo strepitoso ritratto di bimba di Moroni e le due coppie di promessi sposi di Paris Bordone e Bernardino Licinio.. quindi non proprio Tiziano.

La grandezza di Tiziano si comincia ad assaporare solo nella sala dedicata a Lucrezia dove, precedute da un bel Veronese, una Lucrezia del 1515 ed una del 1572 vengono messe a confronto. Ne emerge con forza l’evoluzione pittorica di Tiziano che passa da un tratto assolutamente ‘classico’ a qualcosa di incredibilmente moderno. Se non fosse un’eresia, direi quasi che sembra un’opera ottocentesca.

Già la Lucrezia del 1515 pare molto determinata, quasi un’eroina moderna che decide per se stessa con ferma decisione ma… quanta forza nella Lucrezia del 1572 che si difende con tutte le sue forze dell’aggressore!

Anche la Lucrezia di Veronese che divide la sala con queste due di Tiziano è realizzata nell’ultima fase della vita del pittore (1580 circa) ma emerge con chiarezza che mentre Veronese ha continuato per tutta la vita a lavorare su colori e luci, Tiziano ha trovato altro…si direbbe che abbia trovato il sentimento e che l’abbia indagato non poco negli ultimi anni.

Dopo una sessione dedicata alle belle veneziane e la sessione dedicata a Lucrezia, troviamo raffigurazioni di altri personaggi femminili ed eroine delle Scritture, da Giuditta a Susanna, che nella splendida tela del Tintoretto, si trova insidiata dai due vecchioni, contrapposti con goffaggine alla sua eleganza

Torniamo a trovare forte il sentimento di Tiziano nella tela Venere, Marte e Amore in prestito -come buona parte delle opere- dalla Gemäldegalerie del Kunsthistorishes di Vienna. Un appassionato bacio ci sorprende per la data, 1550,

e di poco lo seguono Venere e Adone, opera in cui la modernissima torsione di Venere è vera protagonista.

La mostra si conclude poche opere dopo, senza davvero lasciare -a mio modesto parere- un gran segno.

L’orgoglio di presentare Mantova alle mie figlie

Ma quanto è bello far scoprire il mondo ai bambini?

Noi cominciamo da Mantova, culla del Rinascimento.

Dopo tanti anni di assenza ritrovo una cittadina piacevole, pulita, molto ben organizzata e davvero a misura di famiglia.

Cominciamo da Palazzo Te perchè -per quanto cronologicamente successivo al Castello di San Giorgio- è più impegnativo e con i bambini è consigliabile programmare le tappe più faticose per prime. Subito Mantova ci sorprende per l’organizzazione, fornendo alle bambine due mappe per una caccia al tesoro all’interno delle sale…E per questo ai miei occhi Palazzo Te guadagna già 1000 punti!

La bellezza degli affreschi lascia tutti senza parole e procediamo segnando diligentemente sulle mappe quanto richiesto.

Da una sala all’altra, le bambine si mostrano sempre più sorprese dalla ricchezza dei particolari e si aggirano con la loro mappa a caccia delle risposte da fornire per procedere nel gioco. Al di là dell’aspetto ludico, racconto loro di Giulio Romano, del Manierismo, del Rinascimento e del ruolo che ha avuto Mantova in tutto questo come centro propulsore delle arti.

Arriviamo alla sala dei Giganti: le enormi figure, le colonne che sembrano crollare per davvero, l’ espressività dei mostruosi personaggi… tutto qui dentro è impressionante. Questo palazzo è davvero unico al mondo ed è bene che questo sia chiaro da subito nelle giovani menti italiane. Se c’è una cosa di cui l’Italia può essere fiera è questa: il suo patrimonio artistico.

Dagli equilibri e dalle armonie di Palazzo Te ci spostiamo nel centro città dove la prenotazione al Castello di San Giorgio ci consente di entrare senza attesa e qui… BAM! Subito nella Camera degli Sposi! Che emozione!

Qui ho l’occasione di raccontare cosa sia la prospettiva, quale straordinaria trovata sia il far passare le figure dietro alle colonne, di quanto Mantegna abbia saputo utilizzare le architetture a proprio favore: gli angeli poggiano sulla sommità della porta, mentre una tenda aperta mostra la scena come fosse uno spettacolo. Ogni particolare è stato lungamente studiato dal Mantegna e le scene meritano tutte le attenzioni ma…inevitabilmente gli occhi sono puntati all’incredibile sfondamento del soffitto. L’oculo, celebre in tutto il mondo, si apre sopra di noi e l’emozione è fortissima. Gruppi di turisti stranieri aspettano il proprio turno per entrare subito dopo di noi nella Camera, ma..siamo sicuri che gli italiani (o almeno i lombardi) siano già stati qui? Di nuovo mi chiedo se noi italiani ci meritiamo tutta questa meraviglia, se siamo all’altezza per custodirla, se ci diamo la pena di conoscerla prima di andare in Messico, alle Maldive o a Parigi. Se non altro mi conforta vedere la quantità di turisti stranieri che girano per la città.

Le sale del Castello di San Giorgio si susseguono una dietro l’altra, ognuna con la propria storia. Interessante il parallelo proposto tra rilievi romani e affreschi cinquecenteschi. Sappiamo quanto abbiano impattato sull’arte rinascimentale i ritrovamenti della Domus Aurea e del gruppo del Laocoonte a Roma tra la fine del’400 e l’inizio del’500 e questo fortissimo legame è qui esemplificato dal parallelismo tra rilievi romani e affreschi.

Ho raccontato alle mie figlie la storia di Isabella d’Este, dell’autorevolezza e del peso che ha avuto sull’arte e sulla cultura del suo Ducato, in un’epoca in cui cultura e studi non erano per niente scontati per una donna. Un grande regalo che fa Mantova ai suoi giovani visitatori è il fumetto Isavincetutto, disponibile su Instagram, in cui una moderna Isabella d’Este, primogenita dei duchi di Ferrara, si ritrova Signora di Mantova a seguito del matrimonio con Francesco Gonzaga. Il fumetto racconta di lei, degli Este, dei Gonzaga, di Ludovico il Moro al quale va in sposa la sorella di Isa, Bea.

Un momento storico come questo in cui la parità di genere viene ricercata in tutti gli ambiti ed un anno come questo in cui la Biennale di Venezia viene dedicata alla visione dell’arte da parte delle donne, risultano favorevoli alla rilettura più onesta della storia, che consente di dare il giusto peso a figure femminili che meritano di essere non solo ricordate ma anche valorizzate e studiate.

Complimenti a Mantova per il coraggio, le energie e l’orgoglio con i quali si presenta al mondo.

Un giro a misura di bambino alle Gallerie d’Italia di Milano

Dopo mesi di divieti, imposizioni e privazioni, finalmente torniamo liberamente nei musei.

E personalmente ci torno nel modo più bello: con due bimbi interessati e pieni di domande.

Con i miei accompagnatori scegliamo le Gallerie d’Italia di Milano, dove temporaneamente l’ingresso consente di partire da Canova per poi progressivamente approdare al ‘900. Questa è una fortuna in realtà per noi perché per i bambini l’approccio e la scoperta del moderno possono essere più graduali. L’ingresso dalle sale del Canova consente anzitutto di spiegare cosa sia il figurativismo. La macro differenza tra figurativo e astratto che per noi adulti sembra banale per i bambini non lo è affatto quindi prima di tutto spiego loro cosa si intenda per opere figurative e per opere astratte e anticipo loro che prima vedremo tanti esempi della prima categoria e poi tanti della seconda. Naturalmente davanti a Canova approfitto per spiegare loro che vi sono diverse forme d’arte, pittura, scultura etc, ma su questo mi sembrano già piuttosto ferrati.. talvolta mi sorprende la loro capacità di apprendimento naturale dalla semplice osservazione.

Canova mi permette il lusso di raccontare i miti come lui li ha scolpiti e come l’arte li ha tramandati ai nostri giorni.

Dopo Canova è il momento dell’ 800 pieno, come solo le Gallerie d’Italia sanno raccontarlo.
Si parte al Romanticismo incentrato sulla storia e permeato dalla ‘milanesità’ più accentuata delle vedute di Arturo Ferrari, Giuseppe Canella e di Angelo Inganni.

La tragedia delle guerre di indipendenza mi permette di spiegare loro che cosa sia stato veramente l’Ottocento, che secolo ricco e straordinario sia per le arti che per la storia d’Italia.


E dalle battaglie e dalla precisione del segno, passando attraverso il realismo dei poverelli di Mancini e compagni, arriviamo ai primi cenni di dissoluzione delle forme con Irolli, Boldini e poi Previati, che divide la sala con le magnifiche opere di Giulio Aristide Sartorio.

Dai divisionisti arriviamo a Boccioni e da qui all’arte del’900 pieno il gioco è fatto ma mi soffermo sulle tre donne di Boccioni, non solo sullo stile ma anche sul significato dell’opera. Arricchita da indovinelli, anche questa parte del percorso risulta assolutamente fattibile per i bimbi.

A questo punto riprendo il concetto di astrattismo e approdiamo al moderno, con tutte le sue stranezze. Scopriamo che un simpatico tizio di nome Pino Pascali decide di creare una sorta di bruco gigante con gli spazzolini per pulire casa e che un altro interessante personaggio di nome Alik Cavaliere crea un albero in una gabbia, con tanto di rifiuti all’interno.

Poi ci avviciniamo a Fontana, a Manzoni e a Crippa e scopriamo anche quanto sia interessante leggere i cartellini e quanto questi ci raccontino di un’opera, dall’epoca in cui è vissuto l’artista al titolo che ha scelto per l’opera, dall’anno alla tecnica utilizzata.

E così, con gli occhi pieni di meraviglia usciamo dalle Gallerie, esausti (io…) ma soddisfatti delle bellissime scoperte.

Il Divisionismo alla GAM di Milano

Due collezioni a confronto: quella della Villa Reale di Milano (oggi nota con uno degli acronimi più amati, GAM) e quella della Fondazione C.R. di Tortona.
La mostra prende l’avvio da una sala dedicata alla Scapigliatura lombarda, che senza dubbio è alla base delle sperimentazioni divisioniste.
Luigi Conconi, Gaetano Previati, Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni rinnovano i soggetti romantici attraverso una nuova modalità di stesura del colore.
Eccezionali gli esempi di Gaetano Previati con Le penombre del 1889- 1891 e di Luigi Conconi con Motivo medievale del 1888.

La seconda sala è dedicata alla rappresentazione della natura, tema molto caro ai divisionisti. Le opere esposte sono di Segantini, di Fornara e del celebre Giuseppe Pellizza da Volpedo, divisionista per eccellenza.

In Plinio Nomellini la tecnica divisionista ed i temi sociali si fondono dando vita a capolavori come Piazza del Caricamento a Genova del 1891. Nella stessa sala, fortissima la denuncia del lavoro minorile di Emilio Longoni.

Il pastello ritrova vigore con il Divisionismo che ben si presta all’utilizzo di questo medium tradizionale. Straordinaria l’espressività nelle opere di Longoni e Giuseppe Mentessi.

Anche Boccioni e Balla si cimentano nella nuova tecnica divisionista tra il 1900 ed il 1910 ma sono l’ esplosione del colore nell’opera di Plinio Nomellini e la matericità della sua pittura che catalizzano l’attenzione dei visitatori.

Le opere prestate per la mostra si integrano alla perfezione con il percorso della GAM e con estrema naturalezza ci si ritrova alla parete dei Segantini e alla luce delle opere di Nomellini e di Sottocornola esposte in permanenza al museo di via Palestro. Ottima questa occasione per rimettere l’accento sul patrimonio a disposizione di noi milanesi, talvolta ingrati e dimentichi di certe fortune…

Alla fine del percorso ci si ritrova tra le opere della Scapigliatura da cui tutto è cominciato, con i capolavori di Daniele Ranzoni e Tranquillo Cremona della collezione permanente.

Alta l’attenzione sull’Ottocento in questo momento, tra questa bella mostra, quella splendida sul mito di Venezia al Castello di Novara e la monografica su Boldini a Bologna. Nel semestre appena concluso il mercato ha risposto bene a questo rinnovato interesse. Speriamo sia l’inizio di una rinascita che la pittura e la scultura del XIX secolo senza dubbio meritano.

Grand tour. Sogno d’ Italia da Venezia a Pompei

Il centrotavola con trionfo di Bacco e Arianna, Apollo e le Muse che occupa la parte centrale del salone vale tutta la mostra allestita alle alle Gallerie d’Italia. Realizzato in Biscuit e metallo nel 1786 da Giovanni Volpato, è un’ assoluta meraviglia di capacità tecniche ed espressive.

Il Grand Tour, un viaggio d’istruzione e di formazione in Italia che tra 1700 e 1800 coinvolse le élites di Europa, Russia e di America come passaggio imprescindibile per la maturazione dello spirito e delle conoscenze della migliore gioventù.
Il nostro Paese come terra di cultura straordinaria.
Momento eccellente, questo di grande crisi, per ricordare chi siamo, da dove veniamo e perché tutti venivano -e vengono- da noi per riempirsi gli occhi di meraviglia.

Si dice che fossero 100 le città da visitare ma in primis sicuramente Roma, ma poi Firenze, Venezia, Napoli.

In arrivo dalla National Gallery di Londra la Regata sul Canal Grande del 1740 circa del Canaletto, presente accanto a Vanvitelli e a Francesco Zuccarelli, altri grandi testimoni dell’epoca.

La bellezza delle nostre rovine è alla base della fortuna dei capricci sul mercato antiquario di ieri e di oggi. L’ Italia come terra di scoperta e di scavi dalla cui esplorazione il giovane colto non poteva esimersi. E lo studio della quotidianità nell’ antichità, seguito alla riscoperta di Ercolano e Pompei, inevitabilmente amplificò l’attrattiva che l’archeologia esercitava sui forestieri.

Nutrita la schiera dei giovani rampolli ritratti da Pompeo Batoni e Stefano Tofanelli, tutti con l’immancabile rovina a fianco nonchè  aristocratico fido in adorazione…

Assolutamente magnifico il dipinto I pellegrini di Roma di Paul Delaroche  in prestito da Poznan.

Tischbein, Anton Raphael Mengs e Angelica Kauffmann gli artisti più richiesti per i ritratti, ma anche Ingres e Bertel Thorvaldsen, scultore eccezionale.
Emblematico il ritratto di Goethe di Kolbe.

Come avviene anche oggi, il va e vieni di turisti fece fiorire l’industria del ‘souvenir’: micromosaici, commessi in pietre dure, servizi di piatti, riproduzione di vasi antichi, bronzi di ogni tipo e misura amplificarono nel corso dei decenni l’interesse dei viaggiatori e la predilezione degli appassionati verso l’arte del nostro Paese.

Come di consueto alle Gallerie d’Italia, una mostra sofisticata e di grande qualità.

Mario Sironi al Museo del ‘900

Una figura interessante e complessa come quella di Mario Sironi avrebbe meritato a mio parere una migliore contestualizzazione. Avrebbe meritato l’ accostamento a qualcuno degli artisti che hanno percorso un tratto di strada con lui, in un secolo difficile, complesso e ricco di esperienze come è stato il ‘900. La contaminazione è alla base della nascita dei grandi artisti e in questo caso purtroppo è solo raccontata ma non presentata.

Nel 1906 Mario Sironi compie un viaggio a Parigi con Boccioni, la cui produzione giovanile non è difforme da quella di Sironi, anzi.

Due anni dopo il viaggio a Parigi, Sironi si reca in Germania -dove tornerà anche nel 1910-11- e nel 1913 aderisce al Futurismo. Allo scoppio della guerra si arruola nel Battaglione Volontari Ciclisti e poi nel Genio.
Molte delle sue opere confermano la condivisione dell’estetica futurista, sebbeno il gruppo forse non l’abbia mai integrato davvero.

Dopo il congedo nel 1919 torna a Roma dove ha modo di conoscere dalle pagine della rivista Valori Plastici la pittura metafisica: le ballerine e i temi futuristi si mescolano ora ai manichini ma i suoi manichini non si allontanano dalla vita reale come quelli di De Chirico, conservano piuttosto una dimensione umana.

Dal 1919 si stabilisce definitivamente a Milano dove si concentra sui paesaggi urbani e su forme potenti e sintetiche di ispirazione classica. Molto frequenti sul mercato delle aste, i suoi paesaggi urbani riscuotono quasi sempre esiti positivi.

Margherita Sarfatti è tra i primi a notarlo ed a farlo conoscere e nel ’22 Sironi è tra i fondatori di Novecento italiano. Magnifici i disegni esposti dai quali emergono con forza le influenze dall’estero, in particolare da Cézanne e da Picasso. Questa a mio parere è la sezione della mostra più bella.

Negli anni ’30 Sironi abbandona la pittura su tela e si dedica alla pittura murale di dimensioni monumentali, diventandone il maggior teorico.
Nel 1933 scrive infatti il Manifesto della pittura murale che viene firmato anche da Carrà, da Funi e da Campigli.

Nel 1945 sta per essere fucilato ma si salva grazie all’intervento di Gianni Rodari che pur essendo partigiano è un suo estimatore ma il crollo degli ideali politici e l’angoscia per la morte della figlia Rossana, suicida a 18 anni nel ’48, minano la sua stabilità e l’inquietudine, che era già una caratteristica presente nella sua produzione, permea le opere degli ultimi anni.

Il realismo magico a Palazzo Reale

Il realismo magico non è uno stile o una corrente organizzata ma un modo di percepire ed interpretare la realtà attraverso una pittura opposta al futurismo ed all’espressionismo. Nasce alla fine della grande guerra. Si distingue dal gruppo Novecento di Margherita Sarfatti ma condivide con esso alcuni artisti. Si oppone alle deformazioni espressioniste e si distingue da tutto, anche dalla metafisica.
Il realismo magico vede la coesistenza di una rappresentazione oggettiva con un’atmosfera sospesa e surreale. La realtà è il punto di partenza di una trasfigurazione che passa attraverso l’immaginazione, la meraviglia capace di rivelare il mistero che si nasconde dietro al mondo rappresentato.
L’illustrazione è oggettiva ed è una sorta di rivelazione della magia del quotidiano.

Le figure sono icone di ieraticità in una luce tagliente che dà sostanza alla scena.

La mostra a Palazzo Reale, visitabile fino a fine febbraio 2022, consente di avvicinarsi ed approfondire la conoscenza degli artisti più rappresentativi del realismo magico, da Felice Casorati ad Ubaldo Oppi, da Antonio Donghi a Cagnaccio di San Pietro, da Mario Sironi a Giorgio de Chirico ed a Carlo Carrá.

Apre la mostra l’emblematico ritratto di Silvana Cenni di Felice Casorati, artista che sceglie Torino dopo la guerra perchè è una città ‘quadrata’ dove sente che la sua pittura può svilupparsi.

Negli anni della guerra Carlo Carrà abbandona il futurismo, si volge al ‘300 e ‘400 italiano e torna al primitivismo. Le figlie di Lot del 1919 è una delle opere che segna l’ inizio del realismo magico.
L’opera non è stata subito capita (soprattutto dagli amici futuristi). La calma che sottende la scena è parte fondante della stessa.

Il ritorno alle origini è auspicato e ricercato anche da De Chirico. La sua dichiarazione pubblicata sulla rivista Valori Plastici è una delle frasi simbolo del movimento: “Bisogna scoprire il demone in ogni cosa”. De Chirico ritiene sia saggio e necessario per l’artista imparare a dipingere studiando i quadri dei grandi maestri e confrontandosi con le tecniche ed i generi della tradizione. L’obiettivo non è un ritorno a-critico ma è cercare di reinterpretare l’equilibrio e la levigatezza cromatica alla luce delle conquiste della pittura.

Mano a mano che si percorre la mostra, si scopre che bene o male tantissimi artisti sono passati per il realismo magico. Tra questi Severini, presente con La maternità del 1920 in prestito da una collezione privata, Mario Sironi con L’allieva del 1924 della collezione Etro ed Achille Funi con due opere del 1921: Maternità e La Terra.

L’atmosfera di calma quotidianità caratterizza la scena della Maternità. Funi partecipa alla mostra organizzata da Margherita Sarfatti nel 1923. La solidità della forma ereditata dalla tradizione quattrocentesca ferrarese caratterizza tutta la produzione di Funi.

Proseguendo nel percorso della mostra,i tre ritratti della famiglia Gualino di Casorati contribuiscono ad affermare Casorati come alfiere del gruppo.
C’è un’atmosfera familiare ma una sensazione perturbante.

Felice Casorati ed Ubaldo Oppi sono probabilmente le figure più presenti in mostra e constato con piacere finalmente una riscoperta della figura di Oppi -dimenticato dal mercato negli ultimi anni così come Mario Tozzi che forse non ha ancora avuto il riscontro che gli sarebbe dovuto. In Mattutino del 1927, in prestito dal vicino Museo del Novecento, si riscontrano le caratteristiche di sacralità del quotidiano e di magia di un’ambientazione sospesa che sono alla base del realismo magico. Su Tozzi, sposato con una francese e molto spesso spesso in Francia, fortissima anche l’influenza di Cézanne.
Cézanne, la metafisica che isola i soggetti e non li fa dialogare con lo spettatore e la solidità delle forme arcaicizzate sono alla base della ricetta di Tozzi.

L’influenza dei macchiaioli si vede invece nella produzione di Baccio Maria Bacci che si era formato infatti con Fattori. Splendido il suo Pomeriggio a Fiesole del 1926-1929.

Alla base della poetica di Marco Broglio invece composizioni monumentali con volontà di ritorno all’ordine ma desiderio di apertura verso l’ Europa e verso gli influssi della nuova oggettività. Broglio darà vita con la moglie alla rivista Valori Plastici che coinvolgerà non solo De Chirico ma anche Carrà e tanti altri artisti.

Uno dei manifesti del realismo magico è senza dubbio l’opera del 1928 di Cagnaccio di San Pietro intitolata Dopo l’orgia.
Straniamento, potenza descrittiva. La modella è la stessa, l’inquadratura assolutamente innovativa. La carica erotica è anesterizzata dall’atmosfera che rimanda all’oggettività tedesca. Il fascio littorio sul polsino e la sottile allusione alla corruzione morale dell’élite fascista lo portano all’esclusione alla Biennale di Venezia presieduta dalla Sarfatti e la critica varrà a Cagnaccio di San Pietro l’oblio.

Gino Severini ha un ruolo chiave e di cerniera tra Francia e Italia. Nel 1921 pubblica Dal cubismo al classicismo e passa effettivamente dall’ estetica cubista al neoclassicismo, dove Pulcinella e gli Arlecchini diventano personaggi chiave.
Le maschere gli permettono di umanizzare le sue geometrie.

La semplificazione formale, il classicismo italiano e la semplicità dell’ impostazione sono i primi aspetti che emergono nelle opere di Antonio Donghi ma in realtà c’è un mondo dietro alle sue figure. Eccezionali le donne che si siedono da sole al bar, autonome e moderne.

La mostra si conclude con l’opera L’alzana del 1926 di Cagnaccio di San Pietro, emblema della nuova oggettività italiana. Uomini usati come bestie da soma, rappresentati nel momento massimo dello sforzo ma al contempo assolutamente astratti dalla scena e sospesi in un atmosfera surreale così come tutte le figure di Antonio Donghi che condividono la stanza con la grande opera di Cagnaccio.

Solidità plastica e spazialità intrisa di un realismo arcaicizzante. Ecco la ricetta di questo realismo magico così ben raccontato dalla mostra a Palazzo Reale. Davvero interessante.

Il Corpo e l’ Anima, da Donatello a Michelangelo. Scultura italiana del Rinascimento

Magnifica la mostra al Castello Sforzesco di Milano dedicata alla scultura. Volutamente altisonante, il titolo suggerisce la presenza di opere importanti e imperdibili e stimola la curiosità dei visitatori che probabilmente non avrebbero risposto altrettanto entusiasticamente se la mostre si fosse chiamata solo Scultura italiana del Rinascimento.
Intelligente marketing a parte, la mostra presenta 120 opere di artisti più e meno noti al grande pubblico, con eccellenti cartellini esplicativi su ogni singola opera.

Meritoria l’operazione del Castello che ha lavorato côte-à-côte con il Louvre di Parigi. Le opere provengono da molti musei tra cui il Metropolitan Museum di New York, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Prado di Madrid, il Museo Nazionale del Bargello di Firenze, il Victoria&Albert Museum di Londra e la British Royal Collection. 
Tra le prime opere, il rilievo in bronzo di Bertoldo di Giovanni datato 1475-1480 affiancato ad un fronte di sarcofago romano degli inizi del III secolo d.C.: la ferocia a fattore comune così come la classe.

Ercole e Anteo, matita su carta di Luca Signorelli, prestato dal Castello di Windsor, segue nel percorso, rivaleggiando con le sculture nonostante la bidimensionalità. Protagonista è la torsione dei corpi dal modello arci-noto dell’Ercole e Anteo del Pollaiolo in prestito dal Bargello.

Da Vienna uno studio di Andrea Mantegna del 1490-1505.

Presenti nella rassegna anche Francesco Di Giorgio Martini e Andrea Del Verrocchio con opere rispettivamente del 1474-1480 e del 1475.


La ‘zuffa’ di Francesco Rustici del 1505-1510 in terracotta costituisce la resa tridimensionale della battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci nel Salone dei 500 di Palazzo Vecchio a Firenze. Gli uomini sfigurati dallo sforzo della lotta non hanno nulla di eroico e risultano addirittura paragonabili a bestie feroci…

Da Rennes invece arriva l’opera di Michelangelo del 1504, una penna ed inchiostro su carta, disegno preparatorio per una figura della Battaglia di Cascina che avrebbe dovuto contrapporsi alla battaglia di Anghiari di Leonardo nel Salone di 500 di Palazzo Vecchio.

Certamente rinascimentali sono gli angeli in terracotta del 1480 di Andrea del Verrocchio prestati dal Louvre, mentre altri deliziosi esempi di virtuosismo scultoreo sono offerti dalle sculture di Giovanni Dalmata e Mino da Fiesole.
Una scultura di arte romana raffigurante le tre grazie del secondo secolo dopo Cristo ci ricorda come lo slancio rinascimentale abbia radici solide nella nostra cultura.

Interessantissimo il bassorilievo di Giovanni Antonio Piatti del 1478-1480 in prestito dal Louvre. In questo bassorilievo risultano chiare le lezioni di Donatello e di Mantegna e l’influenza degli artisti ferraresi in particolare di Ercole de Roberti.

La disperazione sui volti e il dolore che pervadono la scena sono le caratteristiche fondamentali dell’ importante bronzo di Donatello databile al 1455-1460 e prestato dal Victoria and Albert Museum di Londra.

Tutta la sezione delicata alle scene sacre dimostra come in questo ambito negli anni ’80 del ‘400 gli artisti abbiano sfruttato appieno le potenzialità espressive del legno e il magnifico compianto sul Cristo morto Di Bartolomeo Bellano del 1480-90 in prestito da museo Jaquemart-André di Parigi dimostra come anche le potenzialità della terracotta siano state indagate e sfruttate appieno dagli artisti. In quest’ opera il senso del dolore e lo strazio della separazione sono portato davvero all’ estremo.

Straordinaria anche la carica drammatica della Maria Maddalena di Guido Mazzoni del 1485-1489 che nonostante la frammentarietà è ancora capace di trasmettere la tragedia.

La ricerca di verosomiglianza è alla base anche delle due sculture di Francesco di Giorgio Martini, l’una in prestito dal Louvre, l’altra da Siena.

Andrea della Robbia è presente in mostra con un magnifico Christo in pietà del 1495.
La naturalezza della figura, la plasticità della posa e la verità del volto sono caratteristiche che hanno reso i della Robbia immortali.

Straordinaria è l’opportunità di vedere il nudo maschile di Michelangelo Buonarroti in prestito dal Castello di Windsor. Datato 1515-1520 è l’unico disegno di Michelangelo con le indicazioni sulle proporzioni, con il corpo umano che misura 10 teste. Da solo questo disegno vale la mostra.

Magnifiche anche le lesene provenienti dal monumento funebre di Gaston de Foix non finito dal Bambaia e disperso. Molte parti sono proprio al Castello ma questa mostra ci aiuta anche a ricordare quanto abbiamo a disposizione e troppo spesso ignoriamo…

La mostra a Milano si conclude con la pietà Rondanini di Michelangelo, mentre al Louvre si chiudeva con i Prigioni, anch’essi di Michelangelo e anch’essi assolutamente inamovibili. Curiosa specificità che valorizza in entrambi i casi la fine del percorso.

Casa Museo Ludovico Pogliaghi e il Sacro Monte di Varese

Io sono senza dubbio un’esterofila ma tante volte mi chiedo cosa andiamo a fare all’estero. E soprattutto me lo chiedo quando scopro qualcosa di straordinario a due passi da casa.
Quanti lombardi conoscono la Casa Museo Ludovico Pogliaghi al Sacro Monte di Varese? Credo pochissimi. Donata alla Santa Sede da Pogliaghi stesso, la villa è poi passata all’Ambrosiana nell’ottica di agevolare la gestione ma è rimasta chiusa per anni. Riaperta dal 2014 grazie a fondazione Cariplo e a Regione Lombardia, è ora un gioiello aggiuntivo al Sacro Monte. Ma rimane molto scarsa la promozione sul territorio.

La casa è di una bellezza sconvolgente, senza mezzi termini.
Per chi non sapesse cosa si intende per eclettismo, una visita a questo posto incantato varrebbe più di mille spiegazioni. 1500 le opere e oltre 500 i reperti collezionati da questo eccentrico artista vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900.

Un vaso cinese di epoca Ming del ‘600 accoglie i visitatori in una delle prime sale. Il pezzo era già bello di suo ma Pogliaghi gli costruì una base in marmo e applicò ricche decorazioni in bronzo per renderlo più ‘contemporaneo’.
Commistione, contaminazione, conciliazione sono alla base dell’eclettismo che esplode in tutte le arti nella seconda metà del XIX secolo e tante opere qui ne sono testimonianza.

Sul terrazzino si trova un bozzetto del braciere realizzato dal proprietario di casa per la tomba del Canova a Possagno. Sicuramente Pogliaghi apprezzava molto l’opera del celebre scultore.

Dallo stesso terrazzino si vedono le colonne prelevate dal Lazzaretto di Milano e riutilizzate per creare una loggia all’ingresso, nonchè le finestre in stile veneziano.
Diversi sono i reperti anche nel giardino visibile dal terrazzo. Tra questi un prezioso pulvino. I reperti provenivano da luoghi ‘spogliati’. Oggi non lo faremmo più ma all’epoca non si faceva caso alla legittima provenienza dei pezzi quindi si prelevava e si ricollocava, anzi il riutilizzo era una pratica piuttosto usuale.

Ma è rientrando in casa e passando alla sala successiva che si rimane senza parole. È semplicemente in scala 1:4 una replica del bagno turco che Pogliaghi realizzò per lo Scia di Persia.

E questi, oltre al cospicuo pagamento, ripagò l’artista con una gigantesca e magnifica lastra di alabastro esposta qui. Il soffitto è in gesso e stucco mentre il pavimento è in marmo, ma uno dei marmi più preziosi al mondo.

La saletta ospita anche due sarcofagi del 750 a.C, uno dei quali, in condizioni particolarmente eccellenti, era di una delle cantanti di Karnak.

Da questa ‘sobria’ saletta si accede ad un enorme salone in cui a sorpresa si erge…

Un modello della porta centrale del Duomo di Milano in scala 1:1, alta 10 metri e realizzata unendo le formelle di gesso (che risulta non bianco a causa delle terre che lo scultore utilizzava per creare i chiaro-scuri).
Nel 1906/8 la porta in bronzo venne fissata al Duomo di Milano ma non sappiamo quando furono fissate qui queste formelle di prova, probabilmente negli anni ’20. L’evidenza ci dice che nemmeno le grandi dimensioni frenarono il Pogliaghi perchè fece sfondare il tetto per far stare l’altissima porta all’interno del salone…

Un tappet del ‘600 e due dipinti del Magnasco si godono lo stupore dei visitatori dalle pareti dello stesso salone. “Poveretti -sembrano dire- vanno sempre all’estero e non sanno quello che si perdono!”

Proseguendo si giunge ad una micro-galleria di antichità che toglie il fiato: tra i reperti, una ceramica di Luca Della Robbia appoggiata distrattamente per terra, un vaso greco del V secolo a.C., acquistato dai Borghese e un Ermes alato. La testa non era originale quindi Pogliaghi l’ha tolta e e gliene ha rifatta una più bella…

Grottesche, un forse-Tiepolo e uno pseudocaravaggio riportano verso l’ingresso della casa-meraviglia-museo Ludovico Pogliaghi.

Trovo turisti da tutta Europa qui a Varese nonostante la pandemia. Tutti qui per ammirare le 14 cappelle del Sacro Monte.


Il viale delle Cappelle è stato costruito a partire dal 1603 e completato nel 1660 circa.
Archistar del Sacro Monte è stato Giuseppe Bernascone (1565-1627) che qui lavorò tutta la vita: sue le cappelle ed anche il campanile del Santuario. Il percorso è dedicato ai
Misteri del Rosario, si snoda lungo 2 km circa ed è composto da 14 cappelle.
Perchè 14 e non 15 se i Misteri sono 15? Perchè la 15′ cappella è il Santuario stesso.
Notevoli in particolare la terza, la quinta e la tredicesima cappella con opere del Nuvolone e la settima con opere del Morazzone.
In particolare la quinta presenta sia affreschi di Francesco Nuvolone del 1650 sia 22 personaggi in terracotta  creati da Francesco Silva e dipinti a freddo dal Nuvolone nel 1651.
La decima cappella, che è la più grande di tutte, presenta opere di Dionigi Bussola e gli affreschi di Antonio Busca.

Accanto alla terza cappella si trova la più inaspettata delle opere, un murales ad acrilico del 1983 di Renato Guttuso che rappresenta la Fuga in Egitto.

Accanto al Santuario invece si trova l’enorme bronzo raffigurante Papa Paolo VI di Floriano Bodini, opera molto contestata ai tempi della collocazione perchè ritenuta troppo ‘contemporanea’. Floriano Bodini era proprio di queste parti, per l’esattezza di Gemonio, dove ora esiste un museo a lui dedicato. In vita ebbe molto successo e diversi musei e collezioni posseggono sue opere.

Ma il ‘900 ha lasciato un forte segno in questi luoghi, non solo all’esterno ma anche all’interno. Il piccolo museo racchiude una sala che non ti aspetti tutta dedicata ad opere religiose del ‘900. E allora scopriamo che non solo c’è il bozzetto del murales del Guttuso, diverse opere di Bodini, ci sono anche un Cristo di Rouault, una piccola Croceffissione di Sironi, una Deposizione di Sassu ed anche una strepitosa Incoronazione della Vergine di Bernard Buffet del 1961.

Mentre si medita su come promuovere questo posto e le sue bellezze, si potrebbe cominciare se non altro a dotare le opere di cartellini senza vistose correzioni…

‘Fermati! Contempla…’ sembrano dire le opere di Robert Irwin a Villa Panza di Biumo

Villa Panza di Biumo è sempre un’ottima risposta ad un sabato pomeriggio libero.
Ha la giusta pacatezza, non è mai affollata ed è sempre in ordine. Dicono che la casa rispecchi la persona e in effetti pare che Giuseppe Panza fosse un uomo di grande cultura, molto pacato e di grande sobrietà, sia nei gusti che nell’attitudine.

Il corpo principale della Villa a forma di U è del 1750 ma quando Pompeo Litta Visconti Arese acquistò la proprietà intorno al 1830, decise di ingradirla con un magnifico salone ad opera di Luigi Canonica, una rimessa per le carrozze e i rustici sopra ad essa.
La serra ed il cortile furono invece creati da Piero Portaluppi, incaricato nel 1934 dal padre del Conte Panza collezionista.

Due volte all’anno i coniugi Giuseppe e Giovanna Panza, animati dalla stessa passione verso l’arte contemporanea, si recavano negli Stati Uniti. Sidney Janis e Leo Castelli furono i primi ‘fornitori’ del Conte ma Castelli non capiva come mai un giovane ragazzo italiano comprasse tutte quelle opere perciò volle venire a Varese a capire. E capì che aveva per le mani un collezionista straordinario, al quale non importava nulla della moda.

All’epoca tutti gli occhi erano puntati sulla scuola di New York e sulla Pop Art ma Giuseppe Panza intuì il valore dell’avanguardia, del non detto, della sobrietà. E dal ’66-67 si innamorò dell’arte minimalista americana. Acquistò anche opere di artisti come Rauschenberg, Lichtenstein e Claes Oldenburg -che di certo non si possono definire minimal- ma strada facendo si focalizzò sull’aspetto spirituale e sulla sobrietà della minimal e da quella non si allontanò più.
Robert Ryman, Donald Judd, Robert Morris tra gli arristi in collezione. In totale contrapposizione con la chiassosa arte newyorkese, era Los Angeles -grande come l’intera Toscana- la vera patria dell’arte ‘desertica’, misteriosa, silenziosa.

Le opere di David Simson sono le prime ad accogliere i visitatori ma la commistione di stili e di arti è di casa a Villa Panza perciò queste vengono accompagnate nelle magnifiche sale 700-800esche da ceramiche contemporanee decorate da Piera Crovetti e da vasi Venini.

Alfonso Fratteggiani Bianchi è uno dei pochi artisti italiani in collezione. Le sue opere sono realizzate su pietra serena.

Al primo piano mirabili sono gli esempi di compresenza di antico e contemporaneo: Phil Sims è protagonista ma lo è insiema a Venini, a due consoles del 1700, a due strepitose poltrone di Fantoni di nuovo del 1700 e a due antiche balaustre di area parmense.

La leggerezza delle opere di Christiane Löhr, costruite ad imitazione di strutture architettoniche, sono poste in dialogo con le tre tele degli anni ’80 di Ford Beckman.

Sembra che i due mondi trovino conciliazione nelle opere pesanti ma al contempo leggere di Allan Graham della sala successiva. Telai incurvati, spezzati, interrotti…

E in antitesi alle grandi tele, i ‘cubetti’ di Stuart Arends, distribuiti nelle varie sale, creano quasi un percorso parallelo. Le piccole dimensioni suggeriscono leggerezza ma il cuore, che li rende una via di mezzo tra pittura e scultura, è di piombo.

La parte più straordinaria di villa Panza è comunque quella cui si accede dopo tutti questi ambienti e dopo la carrellata di opere sopra descritte, quasi si dovesse affrontare un percorso per giungere preparati all’incontro con l’eccellenza: è la parte dedicata all’arte ambientale degli anni ’60 e ’70 con interventi site specific degli artisti.
Diversi soggiornarono per mesi in Villa. James Turrell per esempio rimase tre mesi. E ognuno di loro lasciò la propria impronta, concentrandosi su qualcosa di diverso. Fattor comune la luce ma… quanta differenza tra un intervento e l’altro! Non si può descrivere, questa parte va realmente vista e bisogna goderne come esperienza sensoriale per assaporarne realmente l’eccezionalità.
Dan flavin si concentrò sull’illuminazione artificiale e decise di creare il famoso corridoio e le celeberrime stanze illuminate con neon colorati che vi si affacciano.
Robert Irwin si concentrò invece sull’illuminazione naturale e creò finestre, magnifiche aperture sul verde che circonda la villa. Sono queste a mio parere le sale più belle e tutte le volte lasciano senza fiato. L’artista sembra dire al visitatore ‘Fermati!’. E colpisce nel segno perchè oggi viviamo correndo e di rado prendiamo il tempo di fermarci a contemplare. Il silenzio poi in cui è immersa la villa completa il quadro di pace che l’artista ha inteso offrire con il suo percorso.
James Turrell infine fu lo straordinario interprete che operò una sintesi tra il percorso di Flavin e quello di Irwin arrivando a creare la stanza ‘Valeriane’, con l’apertura nel soffitto, quasi punto di arrivo estremo di questo viaggio nell’arte.

Oltre la suggestione, una meraviglia, un’esperienza sensoriale che va vissuta per essere capita e che si rinnova ogni volta che si torna ospiti a Villa Panza.

Le Signore dell’ Arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600

Sorprende fino a un certo punto che per vedere un numero adeguato di opere di donne esposte sia stato necessario organizzare una mostra dedicata solo all’arte delle donne.
Caso vuole poi che proprio il biennio 2020-2021 dedicato dal Comune di Milano al talento delle donne sia stato proprio quello massacrato dalla pandemia ma tant’è…

La mostra Le Signore dell’arte celebra finalmente a 34 artiste vissute tra rinascimento e barocco con 133 opere tra ricami, stampe, opere su carta e dipinti su tavola e su tela.

Apre la mostra Sofonisba Anguissola (1535-1625) con la Madonna dell’Itria del 1578, unica opera del periodo siciliano dell’artista.
L’opera racconta del matrimonio della pittrice cremonese con il nobile siciliano Fabrizio Moncada, morto in giovane età durante un viaggio per mare. La pittrice lasciò il dipinto al convento di San Francesco di Paternò, che lo custodisce tuttora, che si impegnò a dire una Messa tutti gli anni nell’anniversario della morte dell’amato Fabrizio. Chiari cenni autobiografici sono nell’autoritratto dalla Madonna e nelle due navi naufraganti sullo sfondo.
In seconde nozze Sofonisba sposò Lomellini anche in assenza dell’ approvazione del re di Spagna suo protettore. Protettore e ammiratore invece delle sue capacità di pittrice fu Michelangelo, nonchè Bernardino Cambi di cui era allieva.

Presente in mostra il capolavoro Partita a scacchi del 1555, concesso in prestito dalla Polonia.
Il gioco é una chiara allusione al rafforzamento della figura femminile: la regina che si muove liberamente sulla scacchiera ed è la più forte di tutti è emblema di questo rafforzamento e le tre sorelle dell’artista, rappresentate nel dipinto, ne prendono coscienza e se ne rallegrano.

Dopo Sofonisba, la mostra celebra
Claudia del Bufalo (date non certe), Lucrezia Quistelli (1541-1594) e la straordinaria ricamatrice Caterina Cantoni (1542-1601).

Tra le artiste attive in convento, Plautilla Nelli apprese le tecniche della pittura da autodidatta. L’arte vista come elevazione spirituale fu motore di apprendimento e di insegnamento,  tant’è che fu anche a capo di un’officina sacra all’interno della quale insegnava secondo i canoni del Savonarola.

Di Orsola Caccia (1596-1676) interessante il dipinto del 1630-40 Natività di San Giovanni Battista, tutto popolato da sole donne.

Magnifico anche il ritratto di Eleonora Gonzaga I del 1622 realizzato da Suor Lucrina Fetti.

Tra le figlie d’arte, Lavinia Fontana (1552-1614) era figlia di Prospero.
Sostenuta dalla famiglia (e anche dal marito e dagli 11 figli!) Lavinia dipinse per tutta la vita facendo dell’arte la propria professione, ritraendo l’aristocrazia del tempo.

Tra le opere esposte Galatea e amorini del 1590 e Giuditta e Oloferne del 1595. Giuditta è da includersi tra le eroine protagoniste delle rappresentazioni post concilio di Trento in reazione alle dottrine calviniste e luterane.

Bellissima la Consacrazione della Vergine del 1599 in prestito da Marsiglia.

Coetanea di Lavinia Fontana fu Barbara Longhi (1552-1638) che mosse i primi passi nella bottega paterna. La sua carriera non andò mai oltre l’area di Ravenna, ciò nonostante Vasari la ricorda nelle Vite quando accenna al padre Luca Longhi. Elegantissimo il suo ritratto di Santa Caterina d’Alessandria del 1580.

Oltre 200 le tele dipinte da Elisabetta Sirani (1638-1665) prolifica e rapidissima pittrice, rispettata da molti e direttrice della bottega paterna. Sepolta accanto a Guido Reni -ben più noto esponente della pittura bolognese-, Elisabetta si impegnò a diffondere il classicismo barocco di Guido e si specializzò in rappresentazioni di donne eroiche e ritratti.
Tra le opere, Porzia che si ferisce alla coscia del 1664. Moglie di Bruto, la donna si ferì per convincere della propria forza il marito e lo convinse a rivelarle della congiura ai danni di Cesare. Generalmente Porzia viene raffigurata mentre si suicida ingoiando carboni ardenti ma Elisabetta Sirani scelse di raffigurarla in un momento di estremo coraggio e forza.

Sulla stessa scia di celebrazione della forza femminile, Elisabetta Sirani rappresenta Timoclea nell’atto di uccidere il Capitano di Alessandro Magno che le aveva usato violenza. L’opera del 1659 raffigura il momento in cui la donna di Tebe reagisce al tentativo di furto e suggerendo al Capitano che i suoi beni siano in fondo a un pozzo, lo spinge dentro e, non paga di questo, gli lancia anche delle pietre addosso…

Delicatissime in compenso le giovani donne dipinta da Ginevra Cantofoli (1618-1672), un’altra artista bolognese del 600.

La sala successiva è dedicata a Fede Galizia e alla Tintoretta.
Fede Galizia (1574-1630?), molto vicino all’ Arcimboldo, si dedicò per lo più alle nature morte, genere nel quale eccelse per qualità ma produsse molto anche nella ritrattistica e nella pittura sacra. Purtroppo è presente in mostra solo una sua opera.

Come Tintoretta (1554-1590) è invece nota Marietta Robusti figlia del Tintoretto. Riconosciuta come grande artista, Marietta fu invitata alla Corte degli Asburgo ma il padre non le permise di lasciare a Venezia. Pare fosse di grande bellezza ma che si vestisse da uomo per poter lavorare nella bottega del padre…

Chiara Varotari (1584-1663) era invece sorella di Alessandro detto il Padovanino, pittore all’epoca di grande fama. Quando il fratello si trasferì a Venezia nel 1614, Chiara lo seguì. Come fece Elisabetta Sirani a Bologna, Chiara organizzò una scuola di pittura per donne a Venezia. Eccellente pare fosse la sua capacità di dipingere i tessuti.

Le tre figlie del pittore borgognone Vincent Voulot – italianizzato in Vincenzo Volò- divennero note per la capacità di dipingere fiori e Nature morte.
La più famosa fu Margherita che nacque nel 1648 e imparò tutto dal padre. Seguì a 19 anni Il marito Ludovico Caffi a Cremona e da quel momento iniziò l’ascesa di questa donna che guadagnò un posto nella storia dell’arte. Lavorò per grandi famiglie e corti europee ma non si dedico mai all’illustrazione di altro soggetto. Gli Este furono tra i suoi committenti. Notevole anche la sorella Francesca che portò avanti con successo la bottega del padre a Milano.

Giovanna Guerzoni (1600-1670) fu la migliore miniaturista barocca. Il guazzo, un tipo di tempera, fu la tecnica preferita dall’artista. Molto amata dalla Granduchessa di Toscana Vittoria della Rovere, Giovanna creò per lei anche magnifici ventagli. Le opere in mostra sono assolutamente strepitose.

Virgilia Vezzi (1601-1638) sposò Simon Vouet e divenne membro dell’Accademia di San Luca, tributo straordinario per un artista di sesso femminile. Per tutta la -purtroppo- breve vita assistette il marito, altrettanto talentuoso e naturalmente più noto di lei.

La mostra si conclude ovviamente con un tributo ad Artemisia Gentileschi, artista finalmente conosciuta ed adeguatamente apprezzata anche dal mercato dell’arte. Artemisia, una donna di straordinaria forza che riuscì a ribaltare la drammatica situazione nella quale si trovò  trasformandola in un punto di partenza, riuscì con le sue sole forze a riabilitare il proprio nome e a diventare una pittrice molto richiesta.
Dolcissima la Madonna del Latte del 1617,

mentre fortissimo e spavaldo è David con la testa di Golia del 1630.

Appresi rudimenti e tecnica nella bottega del padre Orazio, Artemisia fu capace di trarre insegnamenti dal manierismo cinquecentesco e sintetizzarli in un drammatico realismo seicentesco.
Forte l’impatto dell’ultima opera in mostra. La tela – appena ricondotta alla produzione della pittrice – si trova in Italia insieme ad un’altra per essere sottoposta ad un delicato restauro poichè rimasta fortemente danneggiata dall’esplosione del 2020 a Beirut.

La mostra, ricca e molto ben congegnata con diversi video esplicativi, punta i riflettori su artiste quasi completamente dimenticate ma che dimostrano, nelle spendide opere esposte, consapevolezza, tenacia, sapienza e …sicuramente una buona dose di resilienza per essere riuscite ad emergere -o se non altro a non soccombere- in un mondo dominato ieri come oggi da uomini.