Una figura interessante e complessa come quella di Mario Sironi avrebbe meritato a mio parere una migliore contestualizzazione. Avrebbe meritato l’ accostamento a qualcuno degli artisti che hanno percorso un tratto di strada con lui, in un secolo difficile, complesso e ricco di esperienze come è stato il ‘900. La contaminazione è alla base della nascita dei grandi artisti e in questo caso purtroppo è solo raccontata ma non presentata.
Nel 1906 Mario Sironi compie un viaggio a Parigi con Boccioni, la cui produzione giovanile non è difforme da quella di Sironi, anzi.


Due anni dopo il viaggio a Parigi, Sironi si reca in Germania -dove tornerà anche nel 1910-11- e nel 1913 aderisce al Futurismo. Allo scoppio della guerra si arruola nel Battaglione Volontari Ciclisti e poi nel Genio.
Molte delle sue opere confermano la condivisione dell’estetica futurista, sebbeno il gruppo forse non l’abbia mai integrato davvero.


Dopo il congedo nel 1919 torna a Roma dove ha modo di conoscere dalle pagine della rivista Valori Plastici la pittura metafisica: le ballerine e i temi futuristi si mescolano ora ai manichini ma i suoi manichini non si allontanano dalla vita reale come quelli di De Chirico, conservano piuttosto una dimensione umana.

Dal 1919 si stabilisce definitivamente a Milano dove si concentra sui paesaggi urbani e su forme potenti e sintetiche di ispirazione classica. Molto frequenti sul mercato delle aste, i suoi paesaggi urbani riscuotono quasi sempre esiti positivi.


Margherita Sarfatti è tra i primi a notarlo ed a farlo conoscere e nel ’22 Sironi è tra i fondatori di Novecento italiano. Magnifici i disegni esposti dai quali emergono con forza le influenze dall’estero, in particolare da Cézanne e da Picasso. Questa a mio parere è la sezione della mostra più bella.



Negli anni ’30 Sironi abbandona la pittura su tela e si dedica alla pittura murale di dimensioni monumentali, diventandone il maggior teorico.
Nel 1933 scrive infatti il Manifesto della pittura murale che viene firmato anche da Carrà, da Funi e da Campigli.




Nel 1945 sta per essere fucilato ma si salva grazie all’intervento di Gianni Rodari che pur essendo partigiano è un suo estimatore ma il crollo degli ideali politici e l’angoscia per la morte della figlia Rossana, suicida a 18 anni nel ’48, minano la sua stabilità e l’inquietudine, che era già una caratteristica presente nella sua produzione, permea le opere degli ultimi anni.

